ROSARIO DATTILO

AËDO della CIVILTA'CONTADINA CALABRESE

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Conobbi Rosario Dattilo in un pomeriggio del 1972. Era la festa del Primo Maggio e in Piazza Ruffo ad ascoltare il comizio eravamo in tutto una diecina di persone, tra le quali ricordo il professore Ruffo con il padre, Gigi e Gianni Zappia, e appunto Rosario Dattilo che allora non sapevo chi fosse. Ricordo che rimasi molto sorpreso dalla scarsissima affluenza di pubblico. I primi rapporti con Rosario li ebbi in occasione di uno dei tanti week-end che “zio” Enzo Misefari con la moglie trascorrevano a casa mia. La domenica, nella pausa lavorativa, poco prima di mezzogiorno, Enzo Misefari amava incontrare vecchi compagni e amici, e parlare familiarmente con loro di ogni problema. Agli inizi del ’74, mia moglie ed io ci trasferimmo ad abitare a S. Elena nell’appartamento al piano rialzato di casa Tizian.         

Rosario lavorava nel contiguo vasto appezzamento di terreno della famiglia De Blasio, terreno dove adesso insiste il nuovo quartiere di contrada Porticato. I rapporti amichevoli si consolidano, e spesso, nelle ore più calde dei mesi estivi mia moglie lo invita a prendere una birra. Parliamo di tutto e di più: della terra che non dà sostentamento sufficiente, degli ortaggi che non riesce a piazzare a Gioiosa Marina, della situazione politica locale e nazionale come anche del paese che tende a guastarsi  e persino di dialetto, perché Rosario usa ancora l’ut causale al posto dell’infinito in modo corretto (es.: vogghiu u mangiu). Rosario era molto riservato, molto educato e sempre preoccupato di non arrecare disturbo. Un po’ alla volta si venne in confidenza ed appresi alcuni particolari della sua vita. L’esperienza di vita di quell’uomo mi interessava sempre più, e pian piano lo convinsi a rilasciarmi delle libere interviste che registravo su un grosso AKAI. Era nato a Bovalino il 17 ottobre1921. Venne precocemente avviato al lavoro dei campi a causa delle angustie economiche della famiglia e della prole numerosa. Così, a soli dieci anni, costretto dalla necessità, dà l’addio alla scuola ed ai giochi dell’infanzia per accudire gli animali e dedicarsi ai lavori più semplici. Ha frequentato le elementari fino alla IV classe. Significativi alcuni ricordi:”Ho sempre camminato scalzo, come del resto tutti gli altri bambini di famiglie contadine della mia generazione; il mio primo paio di scarpe l’ho avuto a diciotto anni. Allorché frequentavo la seconda elementare l’insegnante, Francesco Panuzzo, segretario fascista di Bovalino, mi espulse da scuola perché mio padre non era in condizioni di pagare la tessera fascista, non certo per motivi ideologici ma più semplicemente a causa dell’estrema povertà; dopo qualche tempo riuscì a racimolare le 5 lire necessarie e così potei continuare a frequentare la scuola”.      

Nel maggio del ’43 viene chiamato alle armi e destinato a Treviso dove permane fino al fatidico 8 settembre. Rientra a piedi in Calabria dopo un mese e mezzo di viaggio, in condizioni pietose. Ancora con le sue parole: “ci fu molto disorientamento; alcuni preferirono andare con i tedeschi, altri con i partigiani, i più scapparono di qua e di là. Io, arrivato fresco fresco dalle campagne del profondo Sud, non ero in grado di operare delle scelte, non avevo istruzione e non mi intendevo di politica; non sapevo perché c’era la guerra né perché c’erano i partigiani, sconoscevo i partiti. Con altri tre amici decisi di tornare a casa e il 12 settembre, a piedi, intraprendemmo la lunga marcia verso sud. Arrivai in Calabria dopo un mese e mezzo, in condizioni pietose. La tranquillità fu però di breve durata perché ai primi del ’44 venni nuovamente spedito al fronte perché dicevano che bisognava continuare la guerra; il congedo arrivò il 20 marzo del ’46”.              

            Nel 1950, epoca delle rivolte contadine, aderisce al movimento sindacale con la CGIL, si iscrive al PCI e fa politica attiva fino al ’66 partecipando a tutte le lotte contadine della fascia ionica reggina; nelle elezioni amministrative del ’62 viene eletto consigliere e permane in carica fino al 1966.

            L’adesione al movimento sindacale e i contatti frequenti con i suoi uomini più rappresentativi, i giornali e la radio quali mezzi di informazione-documentazione, la partecipazione attiva alle lotte operaie e contadine del dopoguerra, rappresentano i fattori qualificanti della sua formazione culturale e politica. E in Dattilo viene a manifestarsi il desiderio, e oserei dire, la necessità di annotare, a futura memoria, in una sorta di occasionale e strano diario composto da fogli di quaderno e pezzi di carta per alimenti, le proprie riflessioni sul duro lavoro dei campi, sulle ingiustizie perpetrate dai padroni, sulla vita animale e vegetale, sull’amore e sul dolore, sulle scelte disperate che portano all’emigrazione.  Dattilo intrattiene un particolarissimo rapporto con l’ambiente: egli non vive nella natura, ma piuttosto vive la natura, e sembra che l’habitat rurale calabrese acquisti parola per il suo tramite. Egli avverte anche le proprie limitazioni: sente di essere scarsamente istruito, o meglio, insufficientemente scolarizzato; non sa esprimersi nella lingua  nazionale e si sente smarrito e disarmato.

            Si trova così inconsapevolmente alla ricerca di un medium per comunicare e ne scopre uno di portata eccezionale: il dialetto. Sconosce la metrica ma lo soccorre la narrazione epica alla maniera dei cantastorie, quell’arte del narrare, in sintonia con l’esperienza e la cultura locale, nella quale mélos e odè, canto e composizione lirica, felicemente si contemperano, talora alternandosi, talora confluendo, o ancora arrestandosi entrambi in pause colme di significato.  

            “Sentivo i racconti dei cantastorie che arrivavano spesso da Reggio o dalla vicina Sicilia; ho conosciuto Orazio Strano di Catania che veniva con una seicento strapuntinata e armava il suo telone in piazza Ruffo, vicino al tabacchino. In quel tempo si cantavano le gesta di Peppe Musolino e di altri eroi popolari; e così scoprii che si poteva cantare e scrivere in dialetto sulle cose del proprio paese, della propria terra”.

Nel periodo compreso tra il 1960 ed il’78 comincia ad annotare le proprie riflessioni sul mondo contadino, espresse in forma di poesia, su ritagli di giornale e fogli sparsi, palesando inconsapevolmente una vera arte poetica, ma molto consapevolmente ed acutamente documentando le condizioni miserevoli di vita della classe contadina ed operaia.

In casa Leone, Rosario ritrova periodicamente un vecchio amico e compagno: l’on. Enzo Misefari, eroe di mille battaglie sociali, storico e scrittore di grande talento. Insieme a don Ciccio Gelonese, ricordano i primi arrivi di Enzo Misefari a Bovalino, quando per parlare in piazza ci si portava da casa uno sgabello che permettesse di acquistare una posizione più elavata e visibile rispetto al pubblico.

In una intervista rilasciatami nell’autunno del 1979, sempre in forma discorsiva, con assoluta libertà di espressione, chiedo un giorno a Rosario quale fosse stato il suo giorno più bello, l’avvenimento che ricordasse con maggiore piacere: “non ho mai avuto il giorno più bello! Cioè non ricordo un giorno in cui posso dire di essere stato totalmente felice, perché la vita è stata sempre piena di sofferenze e di privazioni”.  I giorni in qualche modo “più belli” assomigliano spesso a pallidi ricordi: i giochi dell’infanzia, il giorno di Natale nel quale tradizionalmente anche ai ceti popolari era concesso riposarsi e nutrirsi abbondantemente, il primo paio di scarpe, il primo sussulto amoroso e uno sguardo furtivo. Persino i primi innamoramenti, che spesso nei giovani coincidono con “sofferenze” di carattere spirituale o intellettuale, in Dattilo, e per esteso nei giovani del suo tempo e della sua classe sociale, divengono sofferenze reali, stati di frustrazione, occasioni mortificanti, perché “nessuna ragazza accettava le attenzioni di uno zappatore”. 

Vengo a conoscenza delle sue poesie e resto sbalordito per quanto di valore letterario si ritrova in quei fogli di quaderno e di carta da pasta impresse con incerta grafia da un autodidatta rivelatosi un poeta autentico ed un grande cantore dei problemi e dei valori del mondo contadino. Dalla sofferenza reale e generalizzata del bracciantato agricolo, dalla acquisita coscienza di sé quale uomo, dalla consapevolezza della dignità del proprio lavoro non più subìto come marchio di condanna ma accettato in virtù di una dimensione razionale e culturale, scaturisce la poesia di Rosario Dattilo. Così un po’ alla volta inizio a raccogliere tematicamente le sue poesie (Il sudore, la terra; Versi d’amore; Il pane amaro; Saggezza contadina; Varie di vita e riflessioni), ponendo con me stesso l’impegno di fare in modo che possano essere conosciute e godute da tutti. Il tempo trascorre inesorabilmente e Rosario comincia ad accusare disturbi di salute. I comuni amici che fanno parte del neonato Centro Ricerche Storiche di Bovalino, decidono che quei componimenti poetici sono da pubblicare; i fondi raccolti con l’autotassazione però non bastano e si decide di chiedere la collaborazione del dott. Giovanni Ruffo che accetta con entusiasmo.

Rispondono con entusiasmo all’appello anche Mario La Cava ed Enzo Misefari che scrivono due brevi saggi mentre io  mi occupo dell’architettura dell’opera. Non essendo possibile pubblicare tutte le poesie, con La Cava e Misefari operiamo una selezione di quelle ritenute più valide sia sul piano espositivo che su quello dei contenuti.
            Nel 1982, a causa di una grave infermità, Rosario è nel frattempo costretto ad abbandonare il lavoro dei campi. Mi reco molto spesso a fargli visita sempre accolto con grande simpatia ed amicizia da tutti i familiari. Sento che devo far presto. Un imperativo mi martella il cervello: devo ad ogni costo riuscire ad offrire a Rosario il suo “giorno più bello”.

Il volume, dal titolo “Rosario Dattilo aëdo della civiltà contadina calabrese”, viene stampato  a Milano dalla Editrice Poliglotta nel dicembre del 1984. 

            Riesco a coinvolgere nell’operazione culturale anche la prof.ssa Strano, preside del Liceo Scientifico, e così finalmente il 3 aprile 1985, con la fattiva collaborazione degli alunni e dei docenti del Liceo Scientifico “F. La Cava”, con un riuscitissimo recital, nel salone dell’Euro Hotel viene presentata l’opera di Rosario Dattilo, presenti lo scrittore Mario La Cava, lo storico Enzo Misefari, il dott. Giovanni Ruffo appositamente arrivato  da Milano, la scrittrice Dora Mauro, la preside prof.ssa Strano, le scuole medie e superiori, le autorità cittadine ed un pubblico numerosissimo.

Rosario chiuderà la sua esistenza a Bovalino il 21 febbraio 1989.


         Piero Leone

Bovalino, 30 luglio 2009
    
                                                                                                                                                                                                                     

                                                                                                                    Opera poetica