Mario La Cava:

annotazioni e ricordi

di Piero Leone

 

LA CAVA PRESENTA SE STESSO

 

Mario La Cava nasce a Bovalino Marina l’11 settembre 1908.

            Ecco alcuni dei suoi ricordi:

            “Ero un bambino timido, scontroso e con una segreta volontà di emergere in qualche cosa”.

            “Mio padre era maestro elementare, mia madre casalinga, così come la nonna materna che viveva in casa con noi; la mia educazione fu laica, i capricci non mi furono mai permessi. Non ero uno scolaro diligente; ma ero ansioso di conoscenze e fantasticavo che avrei fatto qualcosa”.

            “La mia vita si concentrò negli studi letterari (dato che mi astenni fin dal principio di esercitare la professione forense, né presi alcun impiego, preferendo vivere come figlio di famiglia per molti, lunghissimi anni)”.

            “Dopo la laurea decisi che avrei fatto lo scrittore; e nel 1932 scrissi il lungo racconto Il matrimonio di Caterina”.

            “Il mio primo scritto fu di caratteri, aveva già visto la luce su l’Italiano di Longanesi, nel 1935”.

            Mio padre, che aveva letto nel 1948 il manoscritto del mio primo romanzo, Mimì Cafiero, finì che morì nel 1956 senza vederlo pubblicato (ed. Parenti, 1959) e non ho dubbio che esso segna una data importante nella mia vita: poiché io avevo sempre pensato ai romanzi…così come al teatro…”.

            Io vivo come al solito, in paese… Dove possa trasferirmi negli anni venturi non so; così non so il luogo nel quale mi accada di dover morire .

            Mario La Cava morirà a Bovalino il 16 novembre 1988.

 

LÌ REGNEREBBE LA SMEMORATEZZA DEL SOGNO

 

            Non fu amore a prima vista; anzi tutt’altro. Al giovane arrivato dalla città in quel sereno angolo di provincia con indosso i valori veri o presunti di un movimento che, escludendo ogni possibile mediazione, privilegiava in modo quasi dogmatico l’individuo, la massa, la prassi come scelta metodologica, non apparve immediatamente simpatico il “fine ingegnere di anime”, quell’uomo mite che rifiutava ogni violenza, anche quella intellettuale, quell’esploratore che si avvicinava ai fatti della vita quasi in punta di piedi, per non turbarne il divenire, per sondarne la natura, per conoscerne gli equilibri, per penetrarne i segreti.

            A proposito de Il cavaliere e la morte di Leonardo Sciascia, Moravia scrisse che lo scrittore siciliano, al pari di Marquez che era colombiano, non poteva che essere uno scrittore impegnato, e ciò non tanto per scelta ideologica quanto per condizione ambientale, per il solo fatto cioè di essere nato in un paese problematico.

            Ritengo che tale affermazione rispecchi pienamente il giudizio da me formulato agli inizi degli anni ’70 nei confronti di Mario La Cava: nel tumultuoso ribollio degli avvenimenti sociali di quel periodo, egli mi appariva come una figura non dico in equilibrio stabile ma quasi statica (che è cosa diversa), i suoi scritti in ritardo generazionale, il suo impegno non di facciata ma talmente in lenta evoluzione da paventarne l’esaurimento.

            Eppure egli godeva della stima e dell’amicizia di Leonardo Sciascia, uno dei maggiori scrittori italiani del  momento, l’italiano più conosciuto e tradotto in Francia, col quale intratteneva una stabile corrispondenza. Che cosa dunque poteva aver individuato Sciascia in quel solitario scrittore di un paesino posto all’estrema periferia di una regione già di per sé estrema, lontana dai luoghi di produzione e di maggiore e più immediato godimento dei fatti e dei progressi culturali, sociali ed economici di un’Italia totalmente lanciata verso i traguardi del cosidetto “boom economico”?

            No, non fu davvero un incontro felice quello tra lo scrittore di Bovalino ed il giovane operatore culturale venuto a turbare la quiete di una cittadina allora ancora incontaminata dalla violenza mafiosa, forte della spregiudicata esuberanza dei suoi venticinque anni e di una diversità culturale elevata a modello.

            Pur tuttavia l’Avvocato fin da allora lo gratificò della sua stima; le visite, prima occasionali, al Centro Servizi Culturali, divennero sempre più frequenti fino ad acquistare, dal ’73 in poi, carattere di quotidianità.

            “Don Mario” arrivava di buon mattino con passo da maratoneta, il viso colorito sotto il berretto a quadri, gli occhi vivacissimi; scorreva avidamente i giornali, dava uno sguardo veloce alle riviste e si metteva quindi al lavoro battendo a macchina copie di manoscritti per probabili editori e articoli letterari o di costume per i quotidiani con cui collaborava; per inciso l’Olivetti 22, che per oltre venti anni gli tenni a disposizione, è tuttora riposta, perfettamente funzionante, in attesa di collocazione in una apposita bacheca al Centro Sistema Bibliotecario Territoriale Ionico, insieme ad altri ricordi, foto e dediche di libri.

            Spesso il lavoro dattilografico veniva rimandato al pomeriggio per aver modo di confrontare le proprie opinioni o scambiare impressioni su fatti, avvenimenti politici, culturali e sociali. Si parlava un po’ di tutto: di letteratura, di storia, di costume, talvolta di piccoli problemi quotidiani o familiari; della cultura danubiana, di Ionesco, di Mitteleuropa dopo una mia permanenza a Bucarest di oltre un mese, ma anche di Marquez e di Arguedas allora quasi del tutto sconosciuti in Calabria, del neorealismo dei paesi latino-americani degli anni ’70 in confronto con il nostro del periodo postbellico; si parlava di Alvaro, di Sciascia, di Bufalino, di arte, di cinema.

            A differenza di altri uomini anche se colti, egli evidenziava una civiltà del conversare, o se preferite, una moderazione dialettica, che lo distingueva come un’anomalia nel caos gesticolante e interloquente caratteristico del mondo meridionale. Egli possedeva il dono e il garbo del saper ascoltare.

            Periodicamente però, come i ruscelli al disgelo, le discussioni divenivano più animate e i temi più suggestivi: l’evento coincideva sempre con l’arrivo di un altro grande “giovane” della cultura calabrese, Enzo Misefari, zio Enzo per me e mia moglie: le discussioni diventavano interminabili, serrate, impetuose, interrotte solo dal telefono di casa La Cava che reclamava il familiare a pranzo, o dall’autoritario breack di mia moglie che riusciva ad imporre a zio Enzo l’intervallo ristoratore.

            Chi oggi stila queste annotazioni ha avuto la fortuna e l’onore di vivere accanto a Mario La Cava ogni giorno, per almeno cinque ore al giorno, per circa venti anni.

            Da quell’infelice approccio iniziale nacque infatti ben presto un solido rapporto di stima e di amicizia, e si verificò un travaso di esperienze utili a entrambi: la saggezza, l’esperienza, l’acume intellettuale dell’Avvocato mi portarono a considerare che si può sì gridare alla vita, ma si può anche instaurare con Essa un sereno dialogo, autocriticamente vagliarne le opportunità offerteci, penetrarne con umiltà e dolcezza gli arcani.

            Dal Centro Servizi Culturali di Bovalino sono passate, per una rilettura in comune, per la definitiva stesura o semplicemente per il lavoro dattilografico, tutti gli scritti lacaviani, anche inediti, esperiti tra il 1973 e il 1988. La prima volta che “Don Mario” mi propose la lettura di Una stagione a Siena (originariamente con altro titolo e fino alla vigilia editoriale in concorrenza con un altro di chiara impronta proustiana “Nella stagione delle fanciulle in fiore”, rimasi profondamente colpito dalla novità tematica, dall’agilità stilistica, dal metro narrativo che la diversificavano da ogni altra sua opera edita, e non potei evitare di battere un rabbioso pugno sul tavolo, imprecando ai ‘desiderata’ e ai suggerimenti sbagliati a suo tempo elargitigli, come anche all’assenza di ogni pur minima programmazione editoriale.

            Gli chiesi il motivo per cui non avesse cercato di pubblicarla agli inizi della sua esperienza narrativa, ed egli, dopo un abbozzo di difesa d’ufficio, ammise col suo naturale candore di avere ritenuto, a torto o a ragione, che argomenti a tematica meridionalistica o comunque regionale avrebbero potuto procurargli maggiore fortuna editoriale. Ma tant’è che nella sua Bovalino tutti sapevano che egli era uno scrittore, qualcuno insinuava che era solo un perditempo, molte persone, già di mezza età alla fine degli anni ’70, ricordavano che egli aveva scritto Le memorie del vecchio maresciallo, assolutamente nessuno ricordava che Mario La Cava era stato anche l’autore dei dialoghi del film Una rete piena di sabbia, prodotto dal dott. Giovanni Ruffo, sotto la regia del compianto Elio Ruffo. La cosa più stupefacente era però che quasi nessuno ricordava d’aver letto alcunché di lui. Ne c’è da stupirsene perché da una ricerca del 1972 sulla scolarizzazione e la lettura nel comprensorio bovalinese (ricerca Formez) si evince che a Bovalino quasi metà della popolazione era ancora semianalfabeta, e probabilmente i benestanti dell’epoca avevano acquistato il libro più per un dovere di cortesia verso una famiglia sempre influente che per un interesse culturale.

            Diversamente si può argomentare per le Opere Teatrali: dal vigore fisico e intellettuale degli anni ’50 che lo spronava al dialogo, e dal confronto diretto con l’ideale destinatario del messaggio culturale veicolato attraverso il mezzo drammatico (forma ante litteram di mezzo di comunicazione di massa) egli dovette desistere ben presto, almeno dal momento in cui una ricognizione più accurata gli permise di considerare come in Calabria mancassero non solo gli stimoli e le occasioni, ma la regione era priva persino dei luoghi deputati ad hoc, cioè degli edifici teatrali, e ancora riconsiderare quanto distante, non solo in termini geografici, fosse la sua Calabria dai centri nevralgici della cultura.

            Mario La Cava mi propose anche l’introduzione al volume Opere Teatrali edito da Brenner 1988, proposta che accettai arrossendo nel ritenere di non essere all’altezza di tanto onore.

            A distanza di appena due mesi Mario La Cava mi lasciò in punta di piedi così come era arrivato agli inizi degli anni ’70. Con la figlia Caterina per molti mesi lo avevo assistito come si può assistere un familiare caro, eravamo persino riusciti a creare un linguaggio dei segni e del tatto per comunicare con lui impedito dalla paralisi.

            Non mi dimenticai di Mario La Cava dopo la morte come non me ne ero dimenticato mentre era ancora in vita e mi ero fatto promotore e latore della richiesta di concessione in suo favore dei benefici della cosiddetta ‘legge Bacchelli’. Rosario Olivo, assessore regionale all’Istruzione e Cultura, divenuto in seguito presidente della Regione, mi attribuì anch’egli un grande onore pregandomi in seguito di recarmi a Catanzaro per ritirare l’assegno di beneficio della ‘legge Bacchelli’ concesso a Mario La Cava per consegnarlo ai familiari.

            Il buon Mario La Cava era nel mio cuore e immediatamente dopo la sua morte misi in moto tutte le mie energie e le amicizie per far sì che la sua tragedia (non il suo dramma) Un giorno dell’anno, lavoro teatrale in cui ha saputo trasfondere l’anima ed il metro narrativo, il pathos e la filosofia esistenziale dei grandi tragediografi greci, venisse preso in considerazione fuori dall’Italia. Volevo ad ogni costo farlo uscire dal limbo dell’estrema periferia dell’impero in cui aveva consumato la sua esistenza e fargli varcare i confini nazionali. Fin dalla metà degli anni ’80 mi occupavo di scambi culturali con l’estero, e così proposi ai miei amici di Strasburgo la rappresentazione di Un giorno dell’anno;  riuscii a coinvolgere nell’impresa la preside del liceo Jean Monnet, il provveditore agli studi e la municipalità di Strasburgo, come anche la scrittrice Dora Mauro e Ginette Herry, docente universitaria e docente all’Accademia d’Arte Drammatica di Strasburgo, grande e famosa traduttrice di Goldoni e Svevo che poi ho invitato a Bovalino, Polistena e Marina di Gioiosa Jonica nel 1997-1999, come anche l’editore Brenner che rispose entusiasta alla richiesta di rinunciare nell’occasione ai diritti editoriali. Sembrava cosa fatta, ma un veto arrivato dall’Italia bloccò tutto e per due anni, vergognandomi, non andai a Strasburgo. Con gli stessi amici ci rifacemmo anni dopo con Fortunato Seminara, ma questa è un’altra storia.

            Fino all’inizio degli anni ’80 lo scrittore bovalinese soffrì della mancanza di rapporto con i giovani; sembrava una condanna: il “bambino timido, scontroso” degli Anni Venti si trovò quasi sempre, suo malgrado, a dover frequentare gente più adulta; il rapporto generazionale fu episodico, se lo si considera relegato al solo periodo degli studi universitari, e per conseguenza i rapporti con l’altro sesso difficili, non spontanei, spesso sublimati a pura intellettualità.

            Egli era persuaso che i giovani non lo amassero, o almeno che lo tenessero in nessuna considerazione; io ribattevo che i giovani più semplicemente non lo conoscevano. Ricordo l’immensa gioia con cui, un pomeriggio agli inizi del 1982, mi informò d’essersi recato la mattina a Locri, nella libreria Pedullà, e di come all’uscita fosse stato letteralmente bombardato di saluti dagli studenti del liceo scientifico usciti da scuola. Era raggiante, felice all’inverosimile per quel rapporto tardivo ma che si rivelerà fecondo. In quegli anni infatti lo avevo coinvolto in un progetto triennale C.E.E. e aveva cominciato a frequentare abitualmente le scuole superiori della Locride, invitato a tenere conversazioni o a collaborare ad attività di ricerca.

            Dall’incontro con i giovani egli trasse nuova linfa e nuovi impulsi, si sentì ringiovanire, si sentì per la prima volta gratificato, accompagnò diverse volte gli studenti del liceo scientifico di Locri nei viaggi d’istruzione, visite ad istituzioni culturali ed editoriali, interviste ad altri scrittori. A causa dell’età avanzata tornava a casa esausto ma felice: tale rapporto durò tre anni, fin quasi alla vigilia della sua lunga malattia, che anzi lo colse in piena azione.

            Con lui si argomentava talvolta sui misteri della vita e della morte, di religione, di impegno civile. Giudicava l’inferno e il purgatorio come un inutile atto di crudeltà d’impronta medievale perpetrato ad incubo dei credenti: “- la morte è di per sé sufficiente, nel suo terribile manifestarsi, a emendare il credente da ogni colpa!

            La Cava, invece, maggiormente vicino a quella che possiamo definire come una religione civile, amava citare il titolo di un famoso arazzo di Goya, dandone una esemplare interpretazione filologica: “ – Non il sonno o il sogno della ragione produce mostri, ma l’obnubilamento o il venir meno della ragione produce mostri”.

            Uomo colto è chi pone la ragione al servizio degli altri e di sé medesimo per accrescerne la qualità della vita. I mostri sono un parto della cattiva coscienza; per l’uomo giusto la morte è solo un sogno senza fine.

            Doveva essere un concetto profondamente radicato nel suo animo se nella pagina conclusiva di Un giorno dell’anno fa dire a Filomena: - Lì non ci sarebbero assassini né assassinati, non ci sarebbe bisogno o dolore, lì regnerebbe la smemoratezza del sogno”.

            Sono dell’avviso che se oggi si potesse consigliare a chi si accosta per la prima volta all’opera lacaviana una lettura alla rovescia, iniziando da Una stagione a Siena, da Mimì Cafiero o da Un giorno dell’anno, senza tenere in alcun conto la sparuta ricalcante autogratificante critica che continua ad arrestarsi ai Caratteri o al Matrimonio di Caterina mistificando su quest’uomo che “liberamente ha scelto di non allontanarsi dalla Calabria (sic!) per continuare a vivere a Bovalino, si ricaverebbe un giudizio assolutamente inedito sullo scrittore: Mario La Cava non fu scrittore regionale, ma appartiene a pieno titolo alla cultura italiana, e, seppur con grandissima lontananza temporale, a quella magnogreca.

 

Piero Leone

 

Bovalino, 29 luglio 2008