Rosario Dattilo

AEDO DELLA CIVILTA’

CONTADINA CALABRESE

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ASPETTI SOCIALI DELLA POESIA DI ROSCIU DATTILO

 

 

Il “privato” e il “pubblico” in Dattilo

Il caso di un autentico contadino che faccia della poesia non è in se stesso una novità.
Certo i poeti in vernacolo sono un gran numero e tutti trattano  il “mottetto” e la “canzuni” che nascono – grido dell’anima – nei momenti di esaltazione della fanciulla amata, o di terribile ansia, quando li sorprende la gelosia, oppure di dolore, quando l’unione è contrastata, insultata o quando sopravviene l’abbandono e il tradimento.
Il gran numero si restringe a pochi se si espungono i verseggiatori appartenenti ad altri ceti o categorie sociali, e che hanno il torto di trasferirsi solo con l’immaginazione nel mondo contadino, che per non essere il proprio non riesce a suscitare nei loro petti ascosi, validi impulsi e limpide fonti creative.
Non citerò pertanto nomi di autori di poesia vernacola di estrazione non contadina.
Nelle nostre popolazioni c’è sovente la memoria di uno o più recitatori di versi, mezzi rapsodi pronti ad esibirsi in ogni festino, o a cantare sotto il verone della bella innamorata, né citerò nomi di contadini nati e cresciuti nel loro stato.
Se per i precedenti si può pensare ad una produzione poetica priva di sincerità o di impulsi originali per questi altri si può osservare che essi difficilmente escono dal particolarismo, dal soggettivo, dalle proprie passioni o ambizioni personali, dal “privato”.
Il caso Dattilo è quanto meno eccezionale. Il Privato c’è, ma è del tutto marginale. Costituisce, si può dire, uno scantonamento, una distorsione per uno stato emotivo eccezionale, una piccola fuga per il bisogno di respirare un po’ col capo fuori dagli stipiti della finestra = il “Pubblico”. Il Pubblico, ossìa la socialità è al centro del suo discorso poetico, tutt’uno con la sua ispirazione, col suo bisogno di poetare e di comunicare con gli altri.

 

Valore etico-sociale della poesia di Dattilo

Il valore etico-sociale della poesia di Dattilo emerge subito, fin dalla prima di esse. Si tratta anche di una poesia/documento storico, testimonianza asciutta, chiara quanto inoppugnabile della condizione umana del proletariato contadino in una società sottoposta alla egemonia scatenata dell’agraria sia nel prefascismo che durante il fascismo, in minor misura, nella repubblica. Agraria succhiona e feroce, priva di ogni sentimento di socialità e conservata nel tempo al principio del profitto quale diritto inalienabile.

Sete di dominio e furfanteria sono per i padroni e per i saccheggiatori del lavoro e della vita dei contadini, non solo la legge e l’ordine imposto dalle leggi degli uomini, ma pure la morale e l’etica comportamentale che devono informare le azioni del cittadino. Il mondo deve camminare così; e non c’è regione che tenga di fronte a questa volontà becera dei ceti dominanti: Il popolo subalterno è costretto a sottostare, e sembra talvolta che perfino i meccanismi della giustizia divina su questa terra stiano dalla parte degli usurpatori.
La legittimazione dell’arbitrio e dello sfruttamento è completa e assoluta; nessuno può, se non vanamente, discuterla o negarla. Siamo nel regno dei tabù.
A questa certezza si deve forse se i temi di Dattilo insistono con grande vigore e fervore sulla iniquità del padrone, su i suoi privilegi, sulle rapine e sulle violenze e prepotenze che commette. La tirannia del padrone impegna mente e cuore dello schiavo promosso servo nelle “terre del Sacramento”.
Il padrone sevizia continuamente, tenta ogni minuscolo pretesto per scacciare dalla terra il contadino che ardisce rivendicare i propri diritti, per ridurgli il salario, per vanificargli la quota del prodotto, per togliergli l’onore della famiglia. Il “Fegu” (feudo) cancellato da tempi lontani, un secolo e più, dai napoleonidi, è sempre presente e assassino: A cosa servono le invocazioni?
Tutto il discorso poetico di Dattilo, ignaro di filosofia e di sociologia, è permeato, a sua insaputa, di proudhonismo. La sua poesia affonda le radici nel vivo della questione sociale. Umilmente  ma con implacabilità di giudizio.

 

La vita da cani del contadino

L’uomo contadino, nell’immobile mondo del Sud, è disumanizzato socialmente e fisicamente. Dattilo ci descive una tale condizione con una robustezza di concetti ineguagliabile. Il compimento ha il titolo: “Mi dicidìa mu cangiu strata”: Povira vita mia sempri zzappandu / zzappandu sempri e non guadagnu nenti…
Il poeta sa di non potersi liberare. Avverte che ancora mancano le condizioni per cambiare il sistema, e gl’infami rapporti di produzione, e le strutture che generano lo spaventoso privilegio e il potere che la classe dominante ha di conservarlo.
Nondimeno egli, individualmente, ha ancora una libertà: “Ora mi dicidìu mu cangiu strata / e ti dassu la pichetta e lu zzappuni, / e si non trovi omani a iornata pigghj la zzappa e ti li zzappi tuni!”
Ma il padrone non andrà a zappare la terra.
Troverà sempre, tra tanti disperati senza lavoro, colui che andrà a sostituire il poveretto che ha osato abbandonare l’azienda per occuparsi diversamente.
Solo una trasformazione radicale può distruggere il privilegio dei proprietari del feudo, perché il cercare semplicemente di cambiare strada appare un vano disegno. E lui ci ha provato: “Diverzi voti cercai u cangiu misteri / e ndebbi u tornu poi mata a zzappari”. 

 

La condizione medievale della donna

A mezzo millennio di distanza dalla fine del Medioevo, la donna contadina del Sud continua, con le attenuazioni nei modi dovute al progresso sociale, ad essere serva in casa e “iornatara” in campagna, poscia serva ancora, oggetto di lussuria per il padrone.
Dattilo, che compone agli inizi della repubblica democratica, non avverte che vi siano mutamenti degni di nota tra ciò che osserva e ciò che si racconta di quella remota epoca di padroni baroni. La donna contadina è più ricattata dell’uomo, più umiliata ed offesa, la sua “persona” è del tutto annullata. Mentre altrove, nelle regioni del Centro - Nord del paese dove è riuscita ad organizzarsi con le altre, può difendersi e contrattaccare nel Sud essa non gode neppure la protezione prevista dalle poche leggi concesse alla classe operaia: Il padrone la sfrutta come vuole e spesso la piega ai suoi desideri di maschio con la violenza, senza che alcuno intervenga. Il quadro sociale che Dattilo ci offre è estremamente drammatico.
La poesia “La me vita”, che inizia la raccolta, oltre che una narrazione autobiografica nella quale il Nostro ad un certo punto si mette da parte per far parlare in prima persona appunto la sua vita, per felice metafora si configura anche come un coraggioso discorso sui più vari aspetti della tragedia della donna del profondo Sud e che riassume millenni di insulto alla sua vita, con la voce del dolore contenuto e con una disperata rassegnazione. La sua “Vita” ci parla appunto come potrebbe parlarci, per traslazione, un’entità femminile; e Dattilo diviene strumento del comunicare della Vita/Donna, veicolo per il quale narrazione autobiografica e descrizione esemplificativa dei modi di violenza si manifestano nell’essere tradizionalmente più indifeso e più sfruttato, meno valorizzato: La donna appunto, in questo caso la donna/vita. La donna, e il ragazzino che in una società violenta è indifeso al pari della donna, è sottoposta a fatiche bestiali, al servizio ora di una ora di un’altra famiglia benestante, inimmaginabili agli altri (ieu sula sacciu quantu fatigava), ha il cuore esulcerato (nta stu cori meu c’era na fiamma), soffre le pene dell’inferno e nessuna mostra pietà.
La fanciullezza, dispensatrice di servizi nulla o poco retribuiti ed oggetto di malversazione, viene continuamente circuita come una procace giovinetta soggetta ai tentativi di seduzione dei padroni (…a li gnuri gula si facìa), sballottata tra la fortissima necessità di non farsi scacciare dal posto e dall'altra di mantenersi illibata, incontaminata (…patìa mu campu e pommu sugnu onesta).
Dei servizi della giovinezza contadina, infine si abusarono in tanti, come  appunto della lussuria che riesce ad abusare d’una fanciulla: “Mi fìciaru  mu soffru e si scialaru,/ si divertiru tantu la mia vita, / mi vittiru orfaneglia e s’abusaru, / la  pegli mi cacciaru e non pagata”.
Sulla condizione della donna, Dattilo torna con insistenza. Nella poesia “U lavuru da notricata”, lavoro che interessava la maggior parte delle contadine della Calabria e del Sud agricolo, il poeta scolpisce in pochi versi quanto fosse faticoso e quanto poco rendesse dal lato economico lìallevamento del baco da seta. Innumerevoli piccoli speculatori e pochi grassi monopolizzatori del bozzolo che in tutti i centri si produceva, si  arricchivano sulla pelle di centinaia, migliaia di contadine, ognuna delle quali poteva ripetere il lamento della protagonista del componimento poetico di Dattilo: “Doppu tantu lavuru e rischiu i vita / no mmi potti fari mai na vesta i sita!”.

 

La Calabria è una terra padana

La vita dei contadini è metodicamente tormentata dal ripetersi dei fenomeni sismici e dalla violenza alluvionale. Quest’ultima accomuna le sorti della Calabria a quelle delle regioni padane. Se vi sono differenze esse consistono nel fatto che i cintadini delle valli del Po hanno una casa e dei villaggi, mentre quelli di Calabria no; non nelle campagne né nei centri abitati, dove, si può dire per tutti, i contadini sono costretti a vivere in cantinati, stamberghe ovvero catoi col solo ingresso e uno o due buttalumi. Non pochi convivono con gli animali su paglioni imbottiti di foglie secche di granturco o di paglia.

Quando arriva l’alluvione o il terremoto questi abituri vengono spazzati via e spesso la gente vi muore dentro sorpresa nel sonno o imprigionata.
Le varie provvidenze governative si sono storicamente dimostrate aleatorie, insufficienti o sono restate del tutto inapplicate. Alle popolazioni è rimasta solo la tragedia. La rassegnazione senza speranza o l’imprecazione.
Il Nostro esprime il dramma dei contadini che, oltre l’abituro hanno perduto le terre coltivate, le piante e l’atteso prodotto dell’anno. E’ un quadro allucinante: “Ora vinni l’acqua furiusa / pecchì mancava u muru i parapettu / l’ortu si levau e puru a casa, / ora nugliu cchiù cogghj lu fruttu…”; i ponti delle strade e della ferrovia sono crollati “ e bestii e cristiani s’annegaru! / Ora ciàngiunu li petri di la via…”. 

 

La speranza di un mondo migliore

Il mondo ingiusto in cui ha vissuto e vive tuttora il poeta davvero non si può sopportare. L’ambiente è irrespirabile anche perché spesso sciocco, sempre invidioso, superbo e malvagio. La gente ti passa accanto e non ti onora neppure di un cenno di saluto: ti guarda dall’alto in basso ed è troppo se non ti fa capire, toscaneggiando, che sei un cafone. Il contadino non ha diritti di civiltà da far valere: è quasi sempre analfabeta, non ha contatti con i “civili”, non conosce le regole del vivere o del galateo, spesso dorme con le bestie, addirittura parla con esse, non ha esperienza di vita cittadina; taluno trascorre la vita nella remota campagna e non ha mai visto il mare.
Il borghese se ne disgusta o se la ride, e umilia così il poveretto che ignora la buona creanza.
Dattilo, ammonisce più specialmente i “don” del centro urbano:
“Si u contadinu a terra no zzappava / dicìtindi vui : A genti chi mangiava? / Aundi menti manu u contadinu / crisci la vigna e fa lu vinu, / crisci la spica di lu ranu, / si fa lu pani e tutti ndi nutrìmu”.
La nobiltà del lavoro contadino va perciò rinfacciata ai padroni attenti solo agli svaghi ed alla esazione delle entrate. Al contadino spesso però non rimame che la prospettiva della fuga dalla terra.

 

Desiderio di vita e l’antica alternativa

Il grande corregionale Padula scrisse che le strutture sociali ponevano ai contadini della Calabria ridotti alla fame la scelta fra l’emigrazione e il brigantaggio. O la fuga o il fucile. Dattilo imparò a sue spese questa verità, dopo essere stato scacciato dalla terra che aveva coltivato per un gran numero di anni. Le sue riflessioni scuotono profondamente chi legge la poesia dal titolo: “Quandu mi cacciaru di la terra”: Lavurai tanti anni cu sti mani / pommu la scugnu e mu cacciu li spini: / zzappava notti e gghiornu senza pani / la vita cunzumai e milli zzappuni!”. Di quella terra arida, incolta ne avevo fatto un giardino, ma “mò vinni lu patruni cu na scusa, / la terra mi pigghiàu e puru a vigna /fora mi cacciau di la so casa / e quandu è ura poi vai e vindìgna”.
Così si apre la prospettiva della fuga:
“Ieu pe lavuru ndeppi u mi straregnu…” Ma lontano dal suo paese sente il terribile morso della solitudine e della nostalgìa, dell’amore della sposa e della terra natìa che gli sembra quasi di avere tradito.

 

 

La via della lotta

Dattilo ha vissuto in pieno la tragedia dei contadini sotto la dittatura del fascismo che coincide con la dittatura dei padroni. Oppressione senza respiro, lavoro trattenuto, nessun beneficio per i contadini, mentre la demogogia propagandava bonifiche agrarie fantasma e il duce ritratto intento a trebbiare il grano. La divisione dei prodotti imposta dai sindacati corporativi favoriva in ogni caso il padronato. I contadini “duri” che si ribellavano venivano cacciati in carcere col marchio della “mala”.
La caduta del regime segnò davvero una “liberazione” per le masse  soggiogate ed il Nostro ci dice la gioia di tutti nella poesia: “Quandu tornau u primu maiu”: “Doppu tant’anni i fasciu chi mancava / quandu tornau gliù jornu, u primu i maiu / cu jìa dicendo ngiru: mò su preju! / Ncera cu jìa dicendu: Finarmenti! / Mò chi catti nterra lu fascismu, / cercàmu u nd’unimu tutti quanti / cussì abbattìmu prestu lu schavismu!”.

 
 
Un ricordo per chiudere

Mi è caro chiudere queste brevi note con un mio ricordo del poeta.
Rosario Dattilo, Rosciu per gli amici, è nato a Bovalino Marina poco più di cinquant’anni orsono. Io lo conobbi che aveva circa vent’anni. Il regime di Mussolini era da poco crollato, ed io, che avevo già diretto il movimento di concentrazione antifascista, giungevo a Bovalino piuttosto spesso per tenere dei comizi o delle riunioni. La sezione del PCI aveva per sede un misero e angusto locale posto sotto il livello stradale. Al mio arrivo i compagni mi facevano sedere dietro un tavolo e mi invitavano a parlare; ogni volta si accendevano grandi dispute sul modo come organizzare il movimento operaio, sulla lotta per ottenere migliori patti agrari, un salario sufficiente, opere di risanamento, etc., e, problema in quel momento più scottante, la liberazione della vita pubblica delle residue incrostazioni fasciste.
La speranza di una redenzione, che in quel momento appariva davvero prossima, riempiva il seminterrato.
Tra i compagni che più formulavano domande serie con l’aria più innocente, tutte le volte scorgevo un uomo minuscolo, vestito alla meno peggio, con occhi ora aguzzi ora un po’ svagati e con le labbra sempre atteggiate al sorriso. Era il neofita Rosciu Dattilo, il nostro contadino poeta autore di questa raccolta.
Non ricordo altri incontri fino al 1979. In questo anno, Piero Leone, mentre conversavamo nella sua casa, mi promise: Tra poco ti presenterò un contadino poeta; sta a lavorare la terra qui vicino.
Poco dopo, a dieci anni di distanza, potei riconoscere il minuscolo uomo della sezione e riacquistarne la memoria del volto chiaro per il sorriso e gli occhi intelligenti. Ci abbracciammo sorpresi. Piero ci guardava commosso: Non aveva pensato che potessimo essere dei vecchi amici e dei vecchi compagni.
Parlammo di tanti episodi che affioravano al nostro ricordo e anche delle sue poesie che sarebbero state raccolte e ordinate da Piero e forse pubblicate. Gli feci tanti auguri. Egli mi rispose: Non ho che delle lattughe da regalarti. Era l’espressione della sua contentezza per avermi rivisto dopo tanti anni. Gli risposi: Grazie caro, per il dono che mi fai, ma ancor di più per il dono che mi farai dei tuoi versi.
Ce ne andammo. Rosciu si rimise a zappare…

ENZO MISEFARI

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