Capitolo III        La cattolica 

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Incastonata alle falde del monte Consolino, addossata, ad incastro, alla parete rocciosa, quasi sospesa e staccata (“per sentire, circonfusa di maestosa vecchiezza, la sinfonia patetica della leggenda”) in un tutt’uno con le ultime case della cittadina, dalle quali emerge, a guisa di conchiglia, la piccola chiesa che i Basiliani spinsero, come vedetta, sulle rupi del mons pinguis libertatis (tanto caro al filosofo Tommaso Campanella, che ivi concepì la Città del Sole e la congiura contro il governo spagnolo), mantiene ancora intatto il suo fascino orientale di costruzione nettamente bizantina, unico esempio del genere, con la gemella di S. Marco di Rossano, ad occidente dell’Adriatico.

“Redimito nido che i sogni di Bisanzio pone”, questo rosso gioiello lucente al sole, dalle cinque cupolette decorate in stile arabo e sormontate da cerchi di tegole – che sembrano rose in procinto di sbocciare e luminose corolle -, è senza dubbio il monumento medievale più famoso della Calabria ed una delle più alte espressioni artistiche del Meridione d’Italia. La sua presenza riporta indietro nel tempo, in una dimensione soprannaturale, che si esplica soprattutto nel silenzio solenne e profondo, nella quiete infinita e nel linguaggio misterioso di un luogo che fu un immenso altare di preghiera e di un edificio, che è una vera icona, un monumento di fede, oltre che un gioiello architettonico (p. Kosmas Andreas Papapetrou, monaco atonita del monastero di S. Giovanni Terista di Bivongi). Pur “minuto in mezzo a tanta lussureggiante natura”, il tempietto, che per la scrittrice Carmelina Sicari ha “una grandezza diversa e ugualmente sublime”, merita di essere custodito – come suggerì l’Orsi per la chiesetta di S. Giovannello di Gerace – “sotto una campana di cristallo e toccato solo con mano guantata”.

A proteggerlo, per quasi mille anni (o, almeno, fino ai primi restauri sistematici e globali del 1914 e del 1927), forse è stata la sua intima unione con uno spazio in cui il mistero trova giustificazione, in cui predomina l’armonia, degnamente rappresentata da questo parallelepipedo di mattoni rossastri, congiunzione di terra e cielo, piantagione di Dio, sistemata ai piedi dell’acropoli stilese (Cristina di Lagopesole). Non si spiega altrimenti la sua resistenza accanita, propria di “un’ostrica attaccata allo scoglio”, alle offese del tempo e degli uomini nonché ai danni provocati dai numerosi tremuoti, che nei secoli hanno devastato l’intera Calabria. “Solo la Cattolica, tenacemente aggrappata alla roccia non si mosse di un dito”, scrive Gaudio Incorpora (in Effemeridi sulla Cattolica, Barbaro Editore, 1995, p. 10), ricordando ciò che annotò Giovanni Vivenzio (in Historia de’ Tremuoti nelle province della Calabria Ulteriore, vol. I, Napoli, MDCCLXXXVIII ), relativamente alla forte scossa del 5 febbraio 1783, che “commosse violentemente tutto il mondo di Stilo, e lo agitò, come per vibrazioni; anzi la parte superiore, ed erta del suo corpo, verso N – E, dove è tutta pendente, e quasi isolata, parve che si fusse in su elevata, o verso il N – E inclinata. Nella sua agitazione il monte tutto fremeva, e venivano lanciate dal suo corpo a lunga distanza delle pietre…”(un’altra scossa, il 28 marzo, portò morte e desolazione “tra la Sagra e Caulone”).

La resistenza della Cattolica, stando ad alcuni studi dell’archeologo Francesco A. Cuteri, che si interpretano in questa sede per esteso e analogicamente, potrebbe essere una diretta conseguenza logica delle “soluzioni tecniche adottate dai costruttori”, tese non solo a “superare gli ostacoli dovuti al ridotto spazio edificabile e a notevole dislivello esistente”, ma soprattutto, a parere di chi qui scrive, a difendere il tempietto dalle offese del tempo e degli uomini. Lo studioso, infatti, nel corso della campagna di scavi del 1996 (diretta dall’archeologo – ispettore Maria Teresa Iannelli) ha scoperto che lo zoccolo di fondazione della chiesetta “risultava ulteriormente rinforzato da un’imponente struttura quadrangolare sporgente di quattro metri rispetto al muro di sostegno delle absidi (sono stati rinvenuti elementi superstiti, ndt)” e che dalla parete meridionale si diparte tuttora “un tratto di muro aggettante con orientamento N – S, attualmente inglobato nelle opere di sostegno della strada di accesso al monumento e a cui si addossano le strutture precedentemente descritte. Tale muro garantiva una più stabile base di appoggio alle colonne del lato orientale…” (Francesco A. Cuteri, in “Vivarium Scyllacense”, VIII/2, 1997).

Il primo ad auspicare la salvezza e il recupero della piccola chiesa bizantina fu, nel 1836, lo stilese Vito Capialbi, il cui grido d’allarme raggiunse gli animi sensibili di Heinrich Wilhem Schultz (1860) e di E’mile Bertaux (1904), quest’ultimo docente dell’Università di Lione, e di altri studiosi d’arte bizantina e normanna (come Edwin Hanson Freshfield e Charles Diehl) nonché l’interesse intellettuale e scientifico di Croce, Abatino e Venturi. Visitata da Henry Swinburne, da François Lenormant – forse da Edward Lear, che ricevette l’ospitalità cordiale del nobile stilese Ettore Marzano -, la Cattolica non attirò l’attenzione e la curiosità dell’Abate di Saint – Non e dei viaggiatori George Gissing e Norman Douglas. Fu ammirata invece da Giolitti, Zanardelli, Crispi e Gentile (che è anche cittadino onorario di Stilo) e da illustri poeti, scrittori, pittori e critici di ogni parte del mondo (cfr. in merito Gaudio Incorpora, Effemeridi sulla Cattolica…,op. cit.).

Nemmeno un cenno alla delicatissima e squisitissima cosa da parte del più grande degli stilesi, Tommaso Campanella (nato a Stilo il 5 settembre del 1568 e morto a Parigi il 21 maggio del 1639), che della Cattolica, nella sua sterminata produzione filosofica, letteraria e scientifica non disse nulla. Eppure nella sua fanciullezza, nelle ore trascorse da pastorello svogliato, ai piedi del monte Consolino, non gli sarà sfuggita l’importanza di quella laterizia chiesetta, che, in quel periodo, sicuramente, non aveva perso la continuità d’uso, come attesta il canonico Michelangelo Macrì da Siderno nella sua  Memoria istorico – geografica.

La sua mente, in quel tempo, era dominata dal desiderio di sovvertire il mondo, la realtà politico – sociale dell’epoca, gli ambienti accademici ed ecclesiastici: non poteva soffermarsi certo a contemplare quel santuarietto eremitico, che fino a qualche anno prima (siamo nel 1579) aveva accolto monaci “ch’officiavan in lingua greca” (l’Abate Pacichelli, invece, afferma che sul finire del XVII secolo erano ancora quattro i monasteri a Stilo che mantenevano quest’antica usanza).

Nemmeno per un momento gli era sfiorata l’idea che “muti nell’ombra delle fitte boscaglie, stagliati sulle groppe e i crinali dei colli, raccolti nelle chiostre dei monti, silenti nei fondi delle valli, i monaci più dei politici, degli economisti, dei tiranni, dei reggitori avevano ed avrebbero trasformato la vita, i costumi, i rapporti e la convivenza sociale”. La fortuna dell’edificio trascende, per Corrado Bozzoni e Franco Taverniti, “il significato storico ed il valore artistico, pur non trascurabile dell’opera”, che può essere definita “un’autentica forma – simbolo, un’immagine unica, riassuntiva ed indimenticabile, della spiritualità dell’intera Calabria”(cfr. La Cattolica di Stilo, Ed. Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1987, p. 26). Questa rara sintesi di orditura metrico – spaziale ha, infatti, per Emilia Zinzi, un’infinità di figurazioni simboliche, presenti anche nelle misure dei lati del vano cubico della chiesa, che, nota Edmondo Infantino, “sono equivalenti a diciotto piedi bizantini, i quali venivano scritti con le lettere – numero IH, che corrispondevano anche alle iniziali di Gesù, così come le cupole, alte dieci piedi, coincidevano con la lettera I e, dunque, con quella iniziale del nome decacorde del figlio di Dio…”(Luoghi dell’infinito, op. cit., p. 67).

Anche Marcello Serra ricorda in un suo bellissimo volume il valore simbolico della costruzione chiesastica. “Questo tempio bizantino – scrive il poeta e scrittore – continua a trasmetterci il messaggio di quella seconda stagione in cui la Calabria accolse nuovamente i Greci, non più guidati dall’oracolo di Delfo, né sostenuti da una volontà di conquista e di potenza, ma dalla fede ascetica degli eremiti e dei monaci basiliani, che avrebbero lasciato con la loro presenza ed il loro esempio una durevole tradizione spirituale in questo popolo assetato di Dio e di giustizia” (Sud Italia chiama Europa, op. cit., p. 289). Poche sono le notizie anteriori al restauro dell’Orsi; esse si limitano alle scarne informazioni raccolte dal Capialbi e de Demetrio Salazaro, che nel 1877 dedicò una propria ricerca ai Monumenti dell’Italia meridionale dal IV al XIII sec. Entrambi gli studiosi fecero riferimento alla già citata Memoria del Macrì. Al monumento comunque fa un minimo cenno, come si diceva, il manoscritto del ‘500 noto sotto il titolo di “ La Grande Platea della Certosa di S. Stefano del Bosco”. Il documento – che si conserva nella Biblioteca del Museo Nazionale di Reggio Calabria – ed è stato reso noto da Franco Mosino (cfr. Calabria bizantina, op. cit., p. 193) – riporta, oltre al passo ricordato nel secondo capitolo di questa pubblicazione e menzionato da Francesco A. Cuteri, le seguenti parole: “…la Chatolica, sita nella costa della montagna, presso la terra vecchia antiqua di Stilo…”.

La Cattolica è una piccola costruzione chiesastica a pianta approssimativamente quadrata e centrale, che esprime un modello planimetrico con croce inscritta, tipico del periodo mediobizantino, in cui la profonda evoluzione nell’architettura religiosa (dal tipo basilicale alla chiesa a croce greca ad una o più cupole) intrapresa sotto le dinastie macedoni e dei Comneni (IX – XII secolo) fu particolarmente avvertita con l’elaborazione di sistemi raffinati e originali.

E’ divisa all’interno da quattro colonne in nove spazi uguali di m. 1,90 di lato: il quadrato centrale e quelli angolari sono coperti con cupole su tamburi cilindrici di diametro uguale. Solo la cupola mediana, che è leggermente più alta, ha un diametro maggiore di appena 15 cm., inavvertibile in una visione d’insieme dell’edificio, a meno che non si osservino con attenzione le forme di apertura e lo sviluppo decorativo dell’elemento centrale e il posizionamento delle testate delle volte a botte. Le strutture murarie della chiesetta si adagiano per buona parte sulla nuda roccia, mentre il peso dell’altra metà di levante (che ha una terminazione triabsidata) è sopportato da tre contrafforti  costruiti in pietra e materiale laterizio. L’edificio ha la forma di un cubo e risulta realizzato con un particolare intreccio lavorativo di grossi mattoni irregolari, uniti da abbondanti letti di malta. L’uso del materiale laterizio – molto costoso rispetto al materiale calcareo, ma di facile messa in opera – e la tecnica usata dai costruttori non trovarono consenziente Paolo Orsi, che avrebbe preferito fare ricorso alle “cortine di laterizi della buona età imperiale”, sottovalutando quindi l’intento dei costruttori, rivolto, dicono Bozzoni e Taverniti (cfr. La Cattolica di Stilo, op. cit.) “ a disciogliere la plasticità della parete nell’accentuazione della grana e del colore del materiale”.

A proposito del materiale utilizzato nella costruzione della chiesetta e, in particolare di quello laterizio, Francesco A. Cuteri nella ricerca indicata in precedenza e pubblicata su Vivarium Scyllacense, VIII/2, 1997 ( e per la prima volta, in una monografia riguardante la Cattolica, cioè in questa sede) evidenzia la presenza, nel lato esterno della parete occidentale, di un mattone con bollo recante la sigla RCM (un altro bollo, non leggibile, è presente nella parte alta della muratura meridionale dell’edificio). “Questo, riferibile a botteghe operanti nel III secolo d. C. nell’area di pertinenza della città romana di Scolacium (odierna Squillace) – scrive Cuteri – avvalora l’ipotesi che la stragrande maggioranza dei laterizi impiegati proviene da una struttura di età tardo – antica non lontana: forse una villa” (cfr. per quel che riguarda l’uso del bollo, A. Ruga, Monumenti funerari di Scolacium. Tipi, modelli, tecnologia e committenza. Uno studio preliminare, in “Notizie dal Chiostro del Monastero Maggiore”, 57, 1996. L’autore precisa che la sigla RCM era attestata unicamente sui laterizi di forma rettangolare di probabile derivazione dal modello lydio databili al III sec. d. C.).

La villa, a detta di Cuteri, potrebbe essere quella già segnalata da Orsi (“la grande villa di contrada Maddaloni”), forse il Praitorion (di cui si parla nelle fonti bizantine dell’XI secolo citate da A: Guillou in Le Brèbion de la Mètropole byzantine de Règion (vers 1050), Città del Vaticano, 1974, p. 48), o quella di Fontanelle, rimasta parzialmente in uso dopo il IV secolo, come ampiamente dimostrato dalla presenza di alcune sepolture.

La Cattolica, all’esterno, è quasi priva di articolazioni e decorazioni, che si riscontrano invece nelle cupolette. Queste, infatti, al fine di dare vita e movimento al corpo di fabbrica, sono rivestite di mattonelle quadre di cotto (a losanga) e di due cornici con mattoni disposti a denti di sega, che seguono l’andamento delle ghiere delle finestre e dei coronamenti dei tamburi. Le due cupolette lato monte sono rese dinamiche dall’apertura di due finestre, mentre su quelle rivolte ad oriente fa bella mostra di sé una coppia di monofore: solo la cupola centrale – forse per rimarcare la centralità della pianta – è intervallata, sul tamburo, da quattro bifore, che non si discostano dalla disposizione dei bracci della croce. La costruzione sembra, all’apparenza, seria, posata, quasi fredda, ed è all’esterno, come si accennava, quasi priva di articolazioni e decorazioni. Questa divisione di funzioni (vistoso cromatismo nella parte superiore ed evidente linearità della facciata vera e propria, che appare “nuda”) induce ad affermare che, effettivamente, non vi è nulla di superfluo nella chiesetta, nella cui globalità sono stati concepiti tutti quegli elementi architettonici destinati ad apportare movimento nel corpo di fabbrica.

Ecco perché è inesatto parlare di monumento “spoglio” all’esterno e straordinariamente adorno all’interno, dove gli affreschi sembrano integrare, e, in gran parte, sostituire l’articolazione architettonica ed hanno, quindi, un manifesto, incontestabile valore costruttivo. Alla Cattolica – la cui collocazione è del tutto originale, perché, commenta Cuteri, “sembrerebbe trattarsi di una scelta non casuale”, che rispetta così il tradizionale orientamento . si accede da una porticina collocata sul lato sud del monumento. All’ingresso principale si sovrappone una caratteristica lunetta, impreziosita da una cornice di mattoni a denti di sega. Sulla facciata, oltre al vano della porta, si apre anche una piccola finestra ad arco tondo corrispondente alla testata della volta a botte. La finestra è visibilmente fuori asse rispetto all’ingresso: “ma la dissimmetria – ricordano Bozzoni e Taverniti – non risulta avvertibile, perché, attraverso la disposizione fuori squadro delle pareti, i due tratti di muro a destra e a sinistra dell’ingresso hanno un identico sviluppo longitudinale” (La Cattolica di Stilo, op. cit., p. 31).

All’interno della piccola chiesa bizantina la particolare collocazione delle fonti di luce (che sono, per la maggior parte, installate in direzione della linea di gronda esterna) mette in risalto la direzione dello spazio, dando maggiore slancio alla proiezione illimitata delle calotte, mediante un sottile richiamo al meccanismo simbolico della gerarchia e della scala umana. La dilatazione dello spazio era assegnata in origine, quando l’edificio era interamente affrescato, alla decorazione pittorica, a cui “era affidato il compito di smaterializzare la superficie muraria” (cfr. Luoghi e monumenti della Calabria testi di Francesca Martorano, Giuseppe Pontari editore, Reggio Calabria, 1993, p. 98; R, Farioli Campanati, La cultura artistica nell’Italia meridionale, in I Bizantini in Italia, a cura di G. Pugliese – Carratelli, Milano, 1982). Il ristretto ambiente del tempietto è munito di tre absidette poste ad oriente: quella centrale (corrispondente al bema) era destinata a ricevere l’altarino, l’abside a nord (prothesis) era titolata ad accogliere il rito preparatorio del pane e del vino, mentre quella a sud (diakonikon) era programmata per la custodia degli arredi sacri e la vestizione dei sacerdoti e dei diaconi prima dei riti liturgici.

Va comunque sottolineata, con Giorgio Leone (Forme e modelli della iconografia greco – bizantina, op. cit.), “la difficoltà di identificare con certezza tali ambienti in mancanza di precise conoscenze in base alla loro funzione originaria” e, con Francesco A. Cuteri, la disposizione del piano d'’uso dei tre piccoli spazi, che, in tempi non lontani, pare fossero rialzati di circa 70 cm. (il che confermerebbe quanto evidenziato dallo Schulz nei suoi disegni).

A tal proposito, annota quest’ultimo studioso, basta considerare che “le tracce delle antiche basi in muratura nei cavetti delle absidi sono poste, partendo da quella di sinistra, rispettivamente a 75, 62 e 78 centimetri dall’attuale piano pavimentale: è possibile dunque, che la colonnina oggi presente nell’abside di sinistra fosse inizialmente collocata altrove” (Vivarium Scyllacense, VIII/2, 1997).

Nell’abside di sinistra è posta una campana di bottega locale, risalente al 1577, probabilmente all’epoca in cui la chiesa passò al rito latino. Sulla campana, fusa con rilievo raffigurante la Madonna e il Bambino, vi è la seguente iscrizione limitata da croci: Verbum Caro Factum Est Anno Domini MCLXXVII Mater Misericordiae. Nella prothesis, come è stato detto, vi è pure un rocchio di colonna tardoantica, in origine adibita a mensa per la conservazione dell’Eucarestia. Il baldacchino delle cupolette è sostenuto da quattro colonne, di cui tre in marmo (due in cipollino, una in lunense) e una in granito. La prima colonna a sinistra poggia su una base ionica capovolta, che è innestata, a sua volta, sopra un capitello corinzio rovesciato in pietra calcarea (del III – IV sec. d. C.); la prima a destra poggia invece su un capitello ionico capovolto.

In merito alla particolarità di questi due elementi, c’è da osservare che il primo è stato probabilmente realizzato con lo stesso tipo di marmo con cui è stato costruito il capitello ionico a imposta (riferibile ad età altomedievale) rinvenuto, assieme ad una colonnina rudentata, durante la ripulitura degli ambienti della Chiesa Matrice, eseguita nel settembre del 1997 dalla Soprintendenza Archeologica della Calabria (direttore: Iannelli; ricercatori: Cuteri e Donato). Non è quindi da escludere che i due pezzi architettonici provengano da un’unica area di estrazione. I capitelli delle quattro colonne sono di tipo paleobizantino, a piramide tronca, con sagoma rigonfia, costole e nervature a rilievo, richiamanti i capitelli a canestra di molte basiliche d’Oriente. Essi, per la Farioli Campanati, sono riferibili ad età macedone e realizzati, afferma Cuteri, “in calcarenite, un materiale lapideo di facile lavorazione, che non trova però grandi attestazioni nell’edilizia locale”.

Quest’ultimo studioso ha però rinvenuto, “murati alla base delle finestre di uno dei palazzi più significativi di Stilo” (in via Carso), alcuni capitelli inediti in calcarenite, senza proporre, al momento, annotazioni stilistiche e cronologiche. “Possiamo solamente osservare – dice Francesco A. Cuteri – come i capitelli siano localizzati in un’area compresa tra la Cattolica e la Chiesa Matrice e come nelle vicinanze (in via Ettore Capialbi) si trovi inserito, in una muratura di età moderna, un bassorilievo in calcare. Pochi blocchi in calcarenite ben squadrati e di diverse misure, sono inseriti nelle murature del S. Giovanni Vecchio di Bivongi” ( Vivarium Scyllacense, op. cit.). Molto si è discusso sul reimpiego di elementi antichi, che “trova diffusa testimonianza nell’architettura medievale in genere, particolarmente bizantina, e in Grecia, di nuovo, in molte costruzioni dei secoli X – XI, quali, per citarne una sola, la Kapnikarea di Atene” ( G. Leone, op. cit., p. 14; cfr. pure C. Mango, Architettura bizantina, Milano, 1974, p. 367). L’archeologo Paolo Orsi fu dell’avviso che le quattro colonne della Cattolica, come altre colonne “di modico calibro” che lo studioso roveretano vide in altre chiese di Stilo, provenissero dalle rovine romane dell’antica Stilida, la miniera antica più prossima.

Della stessa opinione è la Garzya Romano, che considera anche una eventuale provenienza dalle ville presenti nella vallata dello Stilaro (cfr. Italia romanica. 9. La Basilicata, La Calabria, Milano, 1988). Narra, a tal proposito, una leggenda stilese, che i quattro pezzi romani di spoglio furono portati sul posto da quattro giovinette, le quali filavano tranquille, pur salendo con il greve peso lungo l’erto declivio del Consolino: quattro fanciulle dalla nera chioma/ scendevano, cantando, la collina/ e deducevan dalla rocca il fuso./ Andavano, col cercine concluso/sopra la testa, dove una rovina/ smoriva, solitaria ombra di Roma. La leggenda popolare, a parere dello stilese Luigi Cunsolo ( a cui si devono i versi sopra citati), si riferisce invece “alla Matrice attuale, adorna di un elegante portale, sulla cui facciata, a sinistra di chi guarda, si osservano ancora murati due piedi in marmo pario che rappresenterebbero la base di una colossale statua sepolta tuttavia nei sotterranei della chiesa e formata parte di oro, parte di argento: manifesta derivazione biblica ( Daniele, II, 31 – 38), donde anche l’Alighieri trasse “il Gran Veglio di Creta” ( Inferno XIV, 103 sgg.), simbolo dell’umanità e del suo progressivo peggioramento”.

Da rigettare è comunque l’opinione dell’Orsi, che interpretò l’utilizzazione di questi elementi antichi – presenti anche, con due colonnine lisce, un frammento di colonnina tortile e un pezzo quadro nelle quattro bifore del tamburo centrale – come “povertà tecnica e artistica o avversione, per non dire incapacità, delle maestranze a maneggiare lo scalpello”. Niente di tutto questo. Ricorda Giulio Carlo Argan ( in Storia dell’arte italiana, vol. I, Sansoni Editore, Firenze, 1984, p. 226), che “in ogni campo, la tecnica bizantina raggiunge un livello così alto da darsi come forma di pensiero, quasi una filosofia. Essa è infatti pensata come il modo di interpretare, raffinare, sublimare la materia, ridurla al valore spirituale della forma – simbolo…Sempre si tiene conto, perciò, dei precedenti storici, come di stadi attraverso i quali si è pur passati per giungere alla spiritualità pura del fare presente. Nulla è perduto di quell’accumulata esperienza…I tanti tipi di lavorazione e di produzione tendono ugualmente al fine ultimo di quella che potremmo chiamare, con termine della dottrina religiosa, la transustanziazione della materia” o, meglio, secondo Bozzoni e Taverniti, “la ricontestualizzazione del materiale di spoglio che conserva intatto il valore di commovente memoria”.

Sulla prima colonna di destra, che poggia assieme alle altre su un pavimento diviso in nove quadrati uguali e formato da quadrelloni cretacei, è incisa una croce gemmata con lettere di forma onciale (del secondo periodo, cioè del VI sec. d. C.., afferma Fortunato Lupis – Crisafi, mentre per altri studiosi sono riferibili al X – XI sec.).

L’iscrizione – opera di un basiliano, forse il ieromonaco Paolo, il cui nome sembra essere inciso sullo stipite di sinistra della porta d’ingresso – è stata più volte pubblicata e interpretata, ma non sempre con precisione in ogni particolare. Molti studiosi hanno visto nella scritta, che è analoga a quella che si trovava nella distrutta cattedrale di Mileto e ripete un noto testo biblico ( salmo 118, versetto 27, relativo all’Epifania: Theos Kurios epephanem emin, Deus Dominus – Christus – nobis apparuit, Dio il Signore apparve a noi) un’allusione all’invenzione o apparizione della croce alle falde di Aspromonte nell’anno LV del XII secolo.

“E’ popolar tradizione, annota Girolamo Raso ( in Pellegrinaggio al Santuario di Polsi in Aspromonte, 1843) che verso il principio del XII secolo un vitello pascolando in quelle contrade trovasse per terra una croce di ferro, e l’adorasse. Tale teoria basata su di una iscrizione incisa a piè d‘un bassorilievo di niun gusto, incastonato sulla facciata della chiesa, la quale dice postquam eruit adoravit 1144, ha dato luogo alla fondazione del Santuario, il quale in origine non fu che una piccola chiesetta”. Su una diversa e molto contrastante interpretazione di tale brano ha scritto Salvatore Gemelli secondo cui, tra l’altro, il bassorilievo è posteriore alla metà del secolo XVIII e non può avere una data diversa da quella del portale di pietra dell’ingresso orientale della chiesa, che va ascritto al 1773. “L’eco della generale impressione destata ( dall’apparizione della croce in Aspromonte) – precisa Ettore Capialbi, che riprende le argomentazioni del canonico Macrì e di Vito Capialbi – la troviamo nel vederla riprodotta ( la croce) nell’iscrizione greca esistente sopra una delle colonne del Tempio Bizantino, che si conserva ancora in piedi in Stilo, detto la Cattolica, chiesa primitiva, Dominus Venerandus, Deus Passus, Apparuit, Nuper (anno) LV (da leggere : Deus Venerandus, Dominus Passus), che i nostri più accreditati scrittori ritengono debba riferirsi all’apparizione della croce alle falde dell’Aspromonte nell’anno LV dell’XI e XII secolo. Si noti che in altre chiese, anche titolate la Cattolica, anche primitive, anche dei rito greco, le iscrizioni per ricordare l’anno della fondazione, non si servono mai della parola: Apparuit. Nella Cattolica di Mileto la Croce porta pure l’iscrizione greca, che tradotta dal Capialbi (Vito) dice: Anno (supple in quo) Deus Dominus et Illuxit Nobis, cioè, osserva il Capialbi, riproduce il versetto 27 del salmo 118 della versione greca e della Volgata, che nell’ebraico suona: Nobis  Illuxit et Dominud Deus. Se non si dovesse vedere un’allusione all’apparizione della Croce nell’iscrizione di Stilo, non si vedrebbe la ragione di avere convertito in Apparuit la parola Illuxit, che sarebbe riuscita più appropriata sia perché meglio rispondeva al concetto, che nell’iscrizione si voleva esprimere, sia perché ricordava la parola del Salmo biblico…(Perciò) la iscrizione della Cattolica di Stilo serve ad accertare un dato momento storico, serve a provare che la notizia dell’apparizione della Croce non restò circoscritta nell’ambito delle montagne di Aspromonte, ma si ripercosse lontano, e fu ritenuta, in quel tempo, come un avvenimento rivelatore di un potere divino, invocato nell’esercizio del culto Cristiano” (Ettore Capialbi, Il venerabile santuario di Polsi, 1907; cfr. S. Gemelli, Storia…a Polsi d’Aspromonte, op. cit., p. 321).

Di parere opposto, Paolo Orsi che così scrive: “E’ opinione molto discutibile che essa sia la epigrafe dedicatoria della chiesa, che così dovrebbe essere intitolata alla nascita del Salvatore, mentre per costante tradizione essa sarebbe dedicata alla Vergine Assunta; la controversia ha ad ogni modo importanza del tutto secondaria”  (Le chiese basiliane della Calabria, Firenze, 1929). L’argomento non appare, invero, del tutto marginale, perché dalla intitolazione (certa) della piccola chiesa si potrebbe arrivare a capire anche la destinazione specifica della costruzione, che, a tutt’oggi, non è chiara, viste le diverse ipotesi avanzate dagli studiosi sul tema.

Ad ogni modo, il culto dell’Assunzione di Maria Vergine fu portato alla Cattolica dai monaci italo – greci che già dal VII – VIII secolo si erano rifugiati nello stretto e lungo anfratto della grotta del romitorio di Monte Stella, nel vicino territorio di Pazzano.

La devozione all’Assunta, d’altro canto, era tanto familiare al mondo bizantino e ai basiliani, che erano il tramite più efficace della penetrazione di Bisanzio in terra di Calabria. Per la prima volta, in questa sede, si cerca di mettere in discussione, o meglio di porre in modo problematico, la lettura dell’iscrizione della croce gemmata, che quasi tutti gli studiosi della Cattolica danno ormai per scontata, accettando, sic et simpliciter, le argomentazioni prodotte da questo o quell’autore.

A dare manforte a questo rimescolamento di carte sono le osservazioni di don Bruno Cirillo, biblista ed attuale parroco di Stilo. Ecco come il sacerdote argomenta, in uno scritto ancora inedito, che porta il titolo: “lettura dell’iscrizione tra i bracci della croce scolpita in una delle colonne della Cattolica di Stilo”. Nota preliminare. Quando parlo di sezioni, mi riferisco agli spazi creati dall’incrocio dei bracci della croce in quest’ordine:                     1          2

3  4

Sono a conoscenza di due ipotesi.

1)      La prima è riportata da Luigi Cunsolo (nella sua Storia di Stilo, op. cit., pp.259 – 260) e risale al canonico Macrì (v. citazione a p. 259 del volume di Cunsolo). L’interpretazione delle lettere della prima sezione è corretta (Theòs Kyrios = Signore Dio); ma già interpretare quelle della seconda, rispettivamente, come Sebastòs = Venerandus = Venerando e Pepontòs = Passus = Che ha vissuto la passione, mi pare tutto da dimostrare. Occorrerebbe un’indagine epigrafica approfondita. Macrì legge poi insieme le lettere della prima riga, sia della terza che della quarta sezione: phane = apparuit = apparve. Qui escluderei decisamente questa lettura, in quanto manca un elemento morfologico importante per questa forma verbale, cioè l’aumento e: dovrebbe perciò essere scritto ephane. Inoltre, se può andare la lettura delle ultime lettere della terza sezione, come Neòs = nuper = recentemente, è tutta da dimostrare l’interpretazione di NN come LV, cioè 55 (cfr. quarta sezione).

Ancora: si noti come le lettere delle prime due sezioni siano interpretate come abbreviazioni, ognuna nella sua sezione, mentre alcune della terza e della quarta sono interpretate (insieme!) in forma estesa, altre, in forma abbreviata. Forse questo modo di scrivere (e leggere) le lapidi era a suo tempo normale; ma bisognerebbe, appunto, dimostrarlo. Nel complesso, con tutte le cautele del caso, ritengo di escludere questa interpretazione, relativa alla prima ipotesi.

2)      La seconda interpretazione, che si trova nei testi di Squillace ed in altri testi, è stata formulata                                       per la prima volta da Paolo Orsi. In questa seconda ipotesi, le lettere della prima sezione sono tradotte come sopra (Signore Dio). A partire dalla seconda sezione, invece, la lettura è continua (cioè, per esteso): epèphanem emìn. Si tratterebbe del Salmo 117 nella versione greca (in quella ebraica è il 118), versetto 27.

In questa seconda interpretazione, rimane fuori una lettera, e precisamente la prima della seconda sezione, quella specie di “V” (v. disegno in alto). Inoltre, per leggere emìn (a noi), le ultime tre lettere, bisognerebbe dimostrare che la prima lettera della quarta sezione sia una M e non una N. Un’indagine paleografica perciò si rivela indispensabile. Per di più, nel greco classico la e di questa parola è lunga (cioè h = e¯), mentre qui è breve (e cioè, e = e). A quanto pare si tratta di una forma tardiva attestata anche altrove, ma è necessario anche qui approfondire. Nel complesso questa seconda ipotesi mi pare meglio fondata, ma non è per nulla priva di ostacoli.

Una volta superati i problemi relativi alla lettura del testo, sarebbe opportuno confermare meglio il riferimento al Salmo 117 (è più esatto riportare così: 117, non 1118. Si tratta in effetti della traduzione greca del Salmo 118 ebraico, ma la numerazione è differente. Inoltre il testo ebraico del Salmo legge diversamente: “Il Signore Dio ci ha illuminati”; la versione greca legge invece, ad essere precisi: “Il Signore è Dio e ci è apparso”). Se il riferimento al Salmo viene confermato, è tutto da verificare che il riferimento liturgico sia all'Epifania, come si legge nei testi della Cattolica. Perché proprio questo Salmo per commentare la Croce? (don Bruno Cirillo. In merito a questa problematica cfr. Vincenzo Nadile, Dal rito greco al rito latino in Calabria e nella Diocesi di Gerace, Litografia Diaco, Bovalino, 1998, il quale a p. 57, si limita a commentare: “L’iscrizione merita un più approfondito studio epigrafico e di interpretazione”). Fino all’agosto del 1997 nessuno (tra studiosi, visitatori e curiosi) si era accorto che all’interno della Cattolica, sulla prima colonna posta a sinistra, vi erano altre iscrizioni, che permettono di arricchire la documentazione epigrafica della piccola chiesa bizantina.

E’ proprio riferibile a quel mese la sensazionale scoperta di Francesco A. Cuteri, a cui si deve l’individuazione (e la lettura), per la prima volta, dalla data di fondazione del tempietto, di due iscrizioni in lingua araba. “La prima iscrizione (iscrizione A) – si legge nel “Vivarium Scyllacense”, VIII/2, 1997 – è posta nella parte alta della colonna, a m. 1,15 dalla base; non segue un andamento regolare e si può anzi osservare una sorta di pentimento. L’ignoto fedele inizia a scrivere, ma presto si accorge di non seguire un percorso orizzontale. Si riprende subito, dopo poche lettere, allineandosi idealmente su quello ch’è il normale rigo. La scritta, rozzamente eseguita con un elementare punteruolo, ottenendo quasi l’effetto di un alone biancastro, corrisponde alla shahada, ovvero alla professione di fede:

 

La¯  ¢ Ila¯ ha ¢ Illa¯  Alla¯ h wahdahu (?)…

Non c’è Dio all’infuori di Dio solo(?)

(Non c’è Dio all’infuori del Dio unico)

 

 

La seconda iscrizione (iscrizione B) è posta nella parte inferiore a cm. 65 dalla base; molto più lineare rispetto alla precedente, è realizzata con un tratto più netto ottenuto, forse, mediante l’impiego di un rudimentale scalpello:

 

Lilla¯  hi al Hamdu

A Dio la lode

 

Benchè i caratteri utilizzati nella stesura delle due iscrizioni – scrive ancora Cuteri – trovino confronto con documenti epigrafici dell’XI e XII secolo (in particolare, l’epigrafe inferiore presenta forti analogie con l’iscrizione più tarda – fine XI secolo- delle due presenti sul frammento marmoreo rinvenuto nel 1985 ad Amantea ed ora in corso di studio da parte di Cristina Tonghini dell’Università di Firenze, nonché con alcuni documenti epigrafici che si trovano in F. Gabrieli – U. Scerrato, Gli Arabi in Italia, Milano, 1979), è necessario mettere in evidenza la particolarità delle iscrizioni della Cattolica che, sia per il contesto come per le modalità di esecuzione, si differenziano notevolmente dai più noti prodotti di botteghe artigiane altamente specializzate…(mentre)…per quel che concerne la tipologia della doppia iscrizione sulla colonna, possiamo rimandare alla significativa documentazione siciliana…

La presenza di queste iscrizioni e l’esistenza, sulla seconda colonna a sinistra dell’ingresso, di una lettera rimasta isolata molto probabilmente per il deterioramento del marmo, “lasciano avanzare la suggestiva ipotesi che la piccola chiesa bizantina sia stata utilizzata, anche se per u n breve periodo, come oratorio musulmano (un’altra iscrizione è stata da me scoperta sulla prima colonna posta a destra dell’ingresso, quella in marmo bianco. L’iscrizione, posta più in basso rispetto alla già nota epigrafe in greco disposta intorno alla croce gemmata, non è al momento leggibile).

In attesa, com’è stato ribadito, di una più dettagliata analisi epigrafica, si vuole ricordare come una frequentazione musulmana nell’area di Stilo trovi indirettamente riscontro nelle fonti documentarie. Oltre alla nota testimonianza, riportata dalle cronache del tempo, della battaglia del 982 tra le truppe arabe di Abul – Kasem e quelle tedesche dell’imperatore Ottone II, un’incursione saracena è testimoniata, intorno al 995, nella Vita di S. Giovanni Terista (per la vita di S. Giovanni Terista si veda S. Borsari, Vita di S. Giovanni Terista. Testi greci inediti, in “Archivio Storico per la Calabria e la Lucania”, XXII, 1953, ff. 1, 2, 3, pp. 12 – 13: il biografo riporta l’incursione araba nel territorio di Stilo ed in particolare il saccheggio del villaggio di Cursano, luogo di origine del Santo…Un generico riferimento ad un’incursione saracena, avvenuta nel 1024, si ha in uno scritto del 1677 del p. Apollinare Agresta, abate generale dell’Ordine Basiliano: cfr. L. Cunsolo, La storia di Stilo, op. cit., p. 21).(F. A. Cuteri, in “Vivarium Scyllacense, VIII/2, 1997). L’ipotesi di Cuteri è, in effetti, suggestiva e alquanto interessante. Meno convincente, tuttavia, il riferimento, anche se in nota al testo, alla chiesa di S. Giovanni d’Assemini in Sardegna, che da un’ipotesi risulta come moschea. Il raffronto che, si spera, sia solo da interpretare come elemento di ricerca, potrebbe, se non considerato con tutte le dovute cautele, condurre ad uno stravolgimento della storia di Stilo e delle tradizionali funzioni della costruzione chiesastica più rappresentativa della Calabria.

Pure la Cattolica, è vero, come la chiesa di S. Giovanni di Assemini, è suddivisa in nove parti uguali ed ha all’interno quattro sostegni fondamentali (non tuttavia pilastri); ma andare oltre e pensare (anche se, oggettivamente, non traspare dal testo se il pensiero del Cuteri vada in questa direzione) ad una suddivisione secondo “la nota tipologia delle moschee magrebine” e al posizionamento delle absidi rivolte come i mihrab, cioè le nicchie che indicavano ai fedeli la direzione della Mecca, è sinceramente azzardato, perlomeno in questa fase di studio. Il raffronto del Cuteri è puramente intellettuale ed ha probabilmente la sua ragion d’essere nel voler approfondire argomenti che necessitano di ulteriori documentati “appigli” storici ed artistici. Un dato comunque potrebbe essere quanto meno verosimile: se si accetta la datazione del tempietto al XII secolo, non è da escludere, come propone lo studioso, l’impiego, nelle fasi costruttive della Cattolica, di maestranze arabe.

Quanto poi alla frequentazione musulmana dell’area di Stilo, c’è da dire che tale problematica storica è molto difficile da affrontare in poche righe, costituendo le invasioni saracene “un evento particolarmente importante della nostra storia, anche perché dalla prima incursione saracena (a Reggio nell’812) alle ultime guerre piratesche turche (a Pizzo ed a Tropea nel 1793) corre quasi un millennio” (Domenico Ficarra, Storia della Calabria, Reggio C., Falzea, 1995, p. 33).

Le date indicate dal Cuteri (il 982 ed il 995) vanno bene: quella dell’1024 richiamata da apollinare Agresta si riferisce tuttavia ad un’incursione dei “barbari” nel primo dei tre luoghi fabbricati dagli abitanti di Stilida dopo la distruzione nella “primiera fondazione sopra il colle Cocinto, dove oggi si  dice Castellone e Rigusa  e più volgarmente Capo di Stilo” e non, quindi, nell’entroterra del territorio ove era stata costruita la Cattolica. Il Cunsolo, comunque, suggerisce altre date, come quelle del 902, del 913 e del 925, quando uno dei comandanti arabi (il califfo Ibrahim, Korkob o l’emiro di Sicilia, Hansan – ibn – Alì?) potrebbero aver raggiunto la cittadina di Stilo.

Altre considerazioni, a parere di Cunsolo, fanno pensare ad una presenza sistematica degli Arabi sul territorio stilese: innanzi tutto la cosiddetta pietra del Califfo (un enorme sasso di granito che fino agli anni ’50 era addossato ad una casa nei pressi della “fontana dei delfini”); poi, la presenza nelle tradizioni orali della cittadina di cantilene che ricordano l’arrivo dei Turchi in Marina (una di queste fa pressappoco così: “All’armi, all’armi, la campana sona, li Turchi su’ arrivati alla Marina, cu ava scarpi vecchi mu si sola, li mei li solai stamatina”). Non bisogna trascurare inoltre altre incursioni (come quelle che interesseranno particolarmente Gerace nel 948 e nel 987) e gli arabismi adottati in Calabria e a Stilo, che dimostrano come l’intenso flusso lessicale romanzo proveniente dalla Sicilia abbia lasciato nella città molte radici. Sono “vivi” tuttora, ad esempio, i seguenti toponimi: Bardaru, - i (da cui poi i cognomi Bardaro e Baldari), da barda’ ah = basto; Cèbbia, Gèbbia, da gabiyad = cisterna (Gebbia si chiama volgarmente la “fontana dei delfini” posta vicino alla Porta reale); xangazza, da saqq = fenditura (cfr. Girolamo Caracausi, Stratificazione della toponomastica calabrese, in Calabria bizantina, op. cit., pp. 148 – 149).

In conclusione, non è da escludere un eventuale uso della Cattolica come oratorio musulmano, come d’altronde non è da escludere che le colonne possano essere state portate sul luogo già segnate, magari dopo essere state prelevate da qualche contesto architettonico della vallata o della Marina già andato in rovina.

Gli Arabi, il cui scopo era “non tanto la conquista della regione quanto il suo saccheggio”, non distrussero inspiegabilmente la piccola chiesa bizantina.

Forse attratti dalla sua bellezza, dal suo particolare posizionamento, decisero anche di stabilirvi dimora, innalzandola a propria sede di culto e di preghiera.


        La cattolica di Stilo