Capitolo II         Le migrazioni monastiche  

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La popolazione di Caulonia, diventata in tempi romani semplice villaggio, senza autonomia municipale, anzi con mutato nome, risalendo l’ampia ed invitante vallata dello Stilaro, si rifugiò ai piedi della gran rupe del Consolino, che la sbarra e la domina.

“Dovettero essere poche e povere genti – ricorda P. Orsi, in San Giovanni Vecchio di Stilo – quelle che trassero lassù dalle malsicure campagne della costa verso il VII – VIII sec., ricostituendo il piccolo comune della Stilida marittima, semplice stazione postale, a cui nell’ultima decadenza romana, si era ridotta l’antica Caulonia. Dovettero essere soprattutto agricoltori e mestieranti, a cui ben presto si aggiunsero, attratti dalla singolare postura, una quantità di monaci greci, profughi d’Oriente e di Sicilia, che il monte di Stilo e quei più prossimi  trasformarono in breve volger di tempo in uno dei più frequentati centri di monachesimo di tutta la Calabria” e in un’intensa cellula di vita spirituale, artistica, culturale ed economica e, come sottolinea Francesco G. Romeo in Santa Maria di Tridetti a Staiti, in “una cittadina ricca di ogni ben di Dio”.

Stilo fu fondata probabilmente nel luogo dove adesso si trova quando già la potenza musulmana, caduta Taormina nel 905, ultima rocca dei Bizantini in Sicilia, aveva da un pezzo incominciato, con frequenti scorrerie, a molestare i paesi lungo il litorale della penisola calabrese (cfr. L. Cunsolo, La storia di Stilo…, p. 24). Questa tesi è stata contraddetta da alcune campagne di scavi archeologici condotte tra il 1996 ed il 1997 da Francesco A. Cuteri, nell’ambito del progetto di riqualificazione del centro storico di Stilo e dirette dalla dott. Maria Teresa Iannelli. Nel corso di queste ricerche sono state infatti individuate nelle immediate vicinanze della Cattolica numerose strutture murarie probabilmente riferibili ad abitazioni (un primo rinvenimento di una casa bizantina c’era stato nel 1987).

“La mancanza di approfondimenti archeologici – scrive Cuteri in “Vivarium Scyllacense”, VIII/2, 1997 – non ci permette al momento di capire la precisa destinazione d’uso di questi ambienti. Così come non si  può escludere l’esistenza di un piccolo complesso monastico, circondato da un certo numero di grotte, allo stesso modo non possiamo escludere di trovarci in presenza di una parte periferica dell’abitato civile. Quel che posso proporre con maggior certezza è invece la localizzazione dell’antico Kastron di Stilo. Le indagini archeologiche, condotte su buona parte dell’attuale centro storico, non hanno portato all’individuazione, ad eccezione di via cattolica, di reperti mobili e strutture anteriori al XIII sec. Questo dato, e le indicazioni che ci vengono dalle fonti documentarie quali il Brebion e un diploma normanno del 1094 che ricorda espressamente un oppidum, quod appellatur Stylum, localizzano la città bizantina sui terrazzi del monte Consolino, nel cui punto più alto domina il castello”.

Una conferma, in tal senso, ricorda Cuteri, è offerta da un passo della cosiddetta Platea della Certosa del XVI sec. :

Et saglendo in suso verso la ripa, lassando la Chatolica antiqua de dicta terra ad mano dextra, le dicti limiti includeno lo dicto tenimento de li Apostoli. Et da dicto loco sagle per le ripe ad monti et ense ad la terra vecchia antiqua de Stilo, quale ey sopra lo monti alto…

(Cfr. F. Mosino, La grande Platea della Certosa di S. Stefano del Bosco: ricognizioni topografiche e toponomastiche, in Calabria Bizantina. Istituzioni civili e topografia storica, Roma – Reggio Calabria, Gangemi, 1986, pp. 163 – 164).

La cittadina, stando a quanto detto, era abbarbicata sui terrazzi del monte Consolino o si trovava ubicata in altro sito, in attesa di una definitiva sistemazione? La soluzione dell’enigma si avrà nei prossimi anni, sempre se ulteriori campagne di scavi archeologici confermeranno le ipotesi già avanzate dallo studioso sopra citato. Intanto suonano da monito le parole di Cunsolo: “il periodo dal V al X secolo è uno dei più oscuri per la storia calabrese in genere e per quella di Stilida in specie”.

Una cosa comunque è certa: la civiltà ellenica in Calabria – che in questo periodo divenne una nuova Tebaide, simile a quella che nei secoli II e III era stata creata in Egitto dai primi anacoreti cristiani – non è stata solo quella della Magna Grecia. “Qualche secolo dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente un’altra ventata di ellenismo, meno rumorosa ma non meno importante, pervase l’Italia meridionale. Veicoli di questo nuovo germe di cultura egea non furono più gli Ecisti classici, alla ricerca della terra delle profezie ove sfruttare risorse vergini e fondare nuove colonie, ma personaggi umili, guidati da una spiritualità diversa e più intensa, che avevano scelto la via della penitenza e dell’isolamento per sentirsi più vicini all’unico Dio che veneravano: erano i monaci basiliani” (Rocco A. Gioffrè – Emilio Roccabruna, Graffiti rupestri e rifugi anacoretici a S. Elia di Palmi, in “Calabria sconosciuta”, VII, nn. 27 – 28, 1984, pp. 33 – 34).

La culla dell’eremitismo medievale dell’ Occidente è, secondo Jacques Le Goff, una piccola regione del Vecchio Continente. “Chi la volesse rintracciare nei pressi del monte Athos – ha precisato Edmondo Infantino – si sbaglierebbe, perché è molto più vicina. E’, infatti, il singolare arcipelago montuoso che s’alza improvviso dal mare, sul quale s’inseguono infinite foreste d’alto fusto, straordinari querceti caducifogli e sempreverdi: la Calabria. Questo…singolare forziere della spiritualità medievale…costituisce l’erede della grande cattedrale verde nella quale pregavano e facevano penitenza gli asceti che vi migrarono nell’Alto Medioevo…Per i mistici che cercavano luoghi solitari e lontani dalle tentazioni umane, i verdi deserti della Calabria furono quanto di meglio potessero aspettarsi dopo le lunghe peregrinazioni da una costa all’altra del Mediterraneo…”(Cfr. Edmondo Infantino, Luoghi dell’Infinito, Inserto del quotidiano “Avvenire”, n. 8, a. II, maggio 1998, pp. 64 – 65).

I monaci giunsero sulle coste calabre con mezzi di fortuna, animati da un incredibile fervore religioso, spirituale e sociale. Pur separati da tutti, scrive ancora Infantino, gli asceti erranti o i cenobiti vivevano in comunione spirituale con ogni essere umano: “…la loro quotidiana ricerca di Dio fu esemplare atto di amore  alle genti di Calabria, che aiutarono coi dissodamenti, l’impianto e l’innesto di nuove colture, e che confortarono nelle reiterate aggressioni musulmane e feudali.” Essi si fecero promotori di iniziative sociali e culturali notevoli, come le attività agricolo – rurali, l’educazione dei fanciulli, l’insegnamento delle arti calligrafiche (famosi sono i codici manoscritti realizzati negli scriptoria dei monasteri calabresi), musicali e pittoriche (Rocco A. Gioffrè – Emilio Roccabruna).

“Dalle mani dei monaci, fervidi di fede, scrive uno studioso, sbocceranno le belle e suggestive acheropite bizantine, circonfuse d’azzurro e d’oro, le ricche icone di santi jeraticamente estatici, le pale d’altare, le miniature dai più vivaci colori, nonché affreschi e dipinti che abbelliranno tempietti monastici e istituzioni abbaziali”.

In cinque secoli la Calabria si popola di anacoreti, di asceti, di monaci e in ogni angolo sperduto della propaggine più occidentale dell’Impero Bizantino, tra dirupi scoscesi e grovigli arborei, fioriscono laure, eremi, cenobi e monasteri, che – ha precisato Emilio Barillaro, in Terra di Calabria, Annuario di vita regionale, Vol. V, 1968, Pellegrini, Cosenza, p. 30 – “…saranno altrettante fucine di studio e di sapere, e fecondi focolari d’arte, popolati di amanuensi, calligrafi e miniatori, i quali genereranno i primi germi del risveglio artistico, facendo della Calabria la legittima depositaria della tradizione classica in Occidente”, l’intermediaria tra il mondo ellenico e la fervida età in cui gli umanisti avrebbero riscoperto e restaurato quella civiltà classica che dalle rive dell’Ilisso si era irradiata a quelle del Tevere.

Furono tre le ondate principali di questa straordinaria migrazione che ebbe come protagonisti questi uomini straordinari, attratti da asceteri, grotte, poveri oratori e piccoli ricoveri e spinti dal saggio consiglio di Sant’Efrem: “Se l’aquila fa il suo nido in una casa, il fumo la va agli occhi. Guardate gli animali e fuggite le case!”.

I primi a giungere in Calabria, provenienti dalla Siria, dalla Palestina, dall’Egitto, fra il VII e l’VIII secolo, furono i monaci siro – melchiti che, incalzati dagli Arabi, furono i promotori di un monachesimo anacoretico, violento, macerante e penitente. L’altra migrazione monastica, sicuramente più numerosa della prima, si ebbe sotto il rigore e il furore della persecuzione iconoclasta dei secoli VIII e IX, sviluppatasi a Costantinopoli e intrapresa da Leone l’Isaurico (713 – 41), da Leone Copronimo (741 – 55) e ripresa da Leone V l’Armeno (813 – 20). “C’è da denunziare nella determinata logica della persecuzione iconoclasta – scrive Mario Squillace – una motivazione più propriamente ideologica, nascente dalla radicata concezione sacra e sacralizzante del potere politico incarnato nella persona dell’imperatore…Cristo, esaltato, oltre che nella coscienza di fede, negli splendori iconografici, è una presenza critica e contestatrice per l’assolutismo regio e pertanto da cancellare dall’orizzonte sensibile e visivo” (Mario Squillace, Nostalgia di una terra, scampoli e schegge, Editoriale Progetto 2000, 1992, pp. 44 – 45).

L’ultima ondata – dopo quella caratterizzata da un notevole afflusso di icone orientali, di Madonne nigrae seu formosae – si verificò nei secoli IX – XI, allorquando schiere di monaci lasciarono la Sicilia invasa dagli Arabi: questa volta la gens aeterna, invertendo la rotta dei primi movimenti migratori, diretti soprattutto su Reggio, l’Aspromonte e il versante ionico meridionale, fu costretta “ad emigrare più a nord. Così tra l’Orsomarso, Aieta e il Lao ebbe origine la Eparchia monastica, ossia la diocesi greca di Mercurion, divenuta celebre oltre i confini della Calabria anche per i suoi santi, tra cui il più noto e singolare è Nilo di Rossano, fondatore della comunità conventuale di S. Adriano (a San Demetrio Corone)” (Silvio Peluffo -  Marcello Serra, Sud Italia chiama Europa, Editrice Pietro Forani, 1981, p. 182).

Dal rifugio nei pressi di un affluente dell’Aposcipo (dove visse San Leo d’Africo) a Natile Vecchio, dai piani della Corona (prediletti da S. Elia lo Speleota) al monte Kellerana (attuale Limina, ove dimorò San Nicodemo di Mammola), dalla Valle del Neto al percorso suggestivo del Reazio, dal cenobio dei Tre Fanciulli alla grotta di Celadi e alla chiesetta di S. Maria del Pilerio, da Santa Maria del Patir (del Padre) alle grotte sul fiume Colognati, tanti sono i luoghi che saranno resi celebri dalla presenza dell’Esercito di Dio che si stabilì in ogni angolo della Calabria (questa denominazione, attribuita in precedenza alla Penisola Salentina, aveva sostituito, sul finire del Vi secolo, quella di Bruttium).

E poi, le grotte di Praia a Mare, di Paola, quelle di Pentedattilo e di Bombile: tutte testimonianze – molte delle quali sepolte dall’espansione urbana – che meglio esprimono il volto della Calabria, i cui cardini storici e culturali più importanti sono da rintracciare nella civiltà greca e  nella civiltà bizantina (“… dalla metà del secolo VIII in poi la Calabria diviene bizantina non solo ecclesiasticamente, ma pure civilmente e politicamente. La superiore civiltà di Bisanzio – ha scritto Nicola Ferrante in Santi italo – greci in Calabria – la sua forte economia, la sua cultura, d’ora in poi faranno sentire il loro benefico effetto”).

Ben 25 monasteri ( in gran parte andati distrutti) e due diocesi, quella di Gerace ancora esistente e quella di Stilo assorbita da Squillace (ora dalla diocesi di Locri – Gerace) – afferma Mimmo Scarfò in Viaggio nella Locride da Stilo a Gerace, Arti Grafiche Barlocchi, p. 6 – “sono l’inventario bizantino di questa zona. A noi restano da vedere, anche se in parte diruti, i monasteri di San Giovanni Theresti, detto “il vecchio”, a Bivongi, S. Nicodemo de Cellenaris di Mammola, S. Leonzio a Stilo e le chiesette bizantine di S. Giovannello a Gerace, S. Zaccaria a Caulonia, S. Nicola da Tolentino a Stilo…”( la data di fodazione di quest’ultimo edificio, che all’origine era intitolato a Sant’Antonio Abate, sembra essere posteriore all’XI secolo).

Anche la valle dello Stilaro, l’area compresa tra i fiumi Assi, Stilaro e Allaro, i territori di Gerace (che accolse i monaci Antonio, Nicola, Jejunio e Pantaleone), e di Camini (nota per gli antra, dimore eremitiche, poste in un vallone) furono costellati di eremi (costruzioni abitate da un solo monaco) e cenobi (luoghi in cui si raccoglievano più monaci) costituenti il laurito di Stilo così denominato per la presenza di numerose laure eremitiche.

Tra gli  insediamenti monastici di questo vasto comprensorio sono da ricordare: S. Maria de Magistro ( in onore di S. Nilo), poi detta S. Giovanni Terista (ove visse il santo “mietitore”, che, come si legge nei Bollandisti in Acta Sanctorum, febb. T. III, p. 484, fu generato in Calabria da illustri genitori, che osservavano la religione di Cristo, salvatore del genere umano. Suo padre fu conte di una terra che si chiamava Cursano ed era posta nel territorio di Stilo), SS. Apostoli, S Maria di Arsafia, S. Nicola de Saltis, S. Stefano degli eremiti, S. Nicola de Sumpesa, S. Eufemia, S. Nicola de Termon, S. Nicola Elemon, oltre ai metochi (specie di “ fattorie” poste fuori del territorio di un monastero importante per la raccolta dei mezzi di sostentamento del monastero stesso), di S. Venera de Stricto, SS: Anargiri Cosma e Damiano, S. Giuliana, S. Bartolomeo il Nuovo, S. Nicola de Tribukata, tutti dipendenti dal monastero di S. Giovanni Terista, e alla laura basiliana di S. Maria della Scala di Pazzano, ricordata da p. Francesco Russo per la sua spelonca che serviva per le preghiere comuni degli eremiti rifugiatisi sul Monte Stella Nel secolo VII : “la grotta non era altro che una escavazione naturale nelle pendici della montagna, un rifugio per proteggersi dalle intemperie. In essa si trovava una cuccetta, uno stipetto al muro, dove si depositava il salterio, che il monaco recitava giornalmente, qualche icona e qualche manoscritto biblico e di contenuto ascetico” (per la disposizione dei luoghi del laurito di Stilo è utile confrontare la Relazione tecnica generale al progetto di massima di riqualificazione dell’area bizantina di S. Giovanni Theristis ( o Terista), commissionato dal Comune di Bivongi e redatto dai tecnici A. Franco, E. Russo, G. Metastasio, B. Coniglio, T. Coniglio, G. Sorgiovanni, S. Russo e G. Murdolo, con la consulenza del prof. Alessandro Curuni e dell’architetto Josif Roilidis).

Il Consolino – così chiamato da Pomponio Mela – non rimase fuori dalla “ traiettoria” disegnata dai monaci italo – greci, che, anzi, furono attratti da quel massiccio “sassoso ed aspro, quanto eminente e tuto”. Lo attesta la citata ricerca di Cuteri, Franco e Metastasio che, sulle pendici del monte, hanno individuato sedici grotte, ordinate in laure, tutte comprese tra quota 400 e 450 m. s. l. m. ,in linea con la Cattolica e risalenti al VII – VIII secolo. “Si tratta in prevalenza – scrivono i tre studiosi – di grotte naturali con evidenti tracce di adattamenti abitativi dettate da esigenze anacoretiche e delle quali si conosceva, fino ad oggi, la Grotta di S. Angelo, l’unica affrescata secondo una precisa iconografia religiosa”.

In quest’ultima laura è stata individuata da M. Falla Castelfranchi una pittura narrativa che fa riferimento all’Incontro fra i SS. Apostoli Pietro e Paolo (cfr. Relazione all’XI incontro di Studi bizantini, Locri – Gerace, 1993).

Tali affreschi, già noti da tempo, ma comunque con altre specificazioni di soggetto ( Vito Capialbi e Luigi Cunsolo avevano parlato dei Santi Cosma e Damiano, i Santi Anargiri, cioè, “senza denaro”, in quanto medici che curavano senza farsi pagare), non si discostano affatto – scrive Giorgio Leone in Forme e modelli dell’iconografia greco – bizantina nella pittura delle antiche diocesi di Squillace e Gerace, International AM Edizioni, 1996, p. 28 – dal “tema iconografico particolare… (dei)… modelli del monachesimo greco, del quale, del resto, è propria la venerazione verso i SS: Apostoli Pietro e Paolo”. 

Nelle grotte, nelle laure e nei piccoli ricoveri i monaci ricercarono la contemplazione, la preghiera, la mortificazione, praticando la più severa ascesi anacoretica. Il cibo, nella prima fase degli insediamenti monastici, oltre che da miele, capperi e legumi selvatici, fu costituito da tutto ciò che le pendici del monte producevano: radici, piante ed erbe, molte delle quali furono salutari e persino oggetto di studio da parte del Campanella, che se ne occupò nel “Medicinalium” (una leggenda stilese, a tal proposito, attribuisce ad una di tali erbe prodigiose la sapienza del filosofo: l’aveva mangiata da bambino quando accudiva il gregge paterno).

Le sostanze preferite da “coloro che si erano ritirati dal mondo” furono quelle derivanti dall’euphorbia dendroides (cicoria selvatica), dall’onopordum illyricum (cardo), dalla leopoldia comosa (cipollaccio), dal rubus idaeus (lampone) e dalle masse bianche, di sapore dolciastro ( la manna, il cibo che secondo la Bibbia cadde dal cielo e nutrì gli Ebrei nel deserto), frutto del fraxinus ornus.

Nella fase più austera dell’eremitismo, non è escluso che molti monaci – pur di modellare il corpo alle richieste dello spirito – siano stati gli antesignani della filocalìa, cioè dellarte sublime codificata dal monaco calabrese Niceforo Athonita ( che verso il 1270 visse sul monte Athos), praticata dai Santi Esicasti e “consistente nelle capacità di adattare il ritmo cardiaco e quello del respiro e di inspirare, nel contempo, pronunziando il nome di Cristo, desiderando l’asceta estatico di permeare del Cristo ogni fibra del corpo…”(S. Gemelli, Storia, tradizioni e leggende a Polsi d’Aspromonte, Reggio, Gangemi, 1992, p. 100).

Con il passare del tempo, dopo i primi periodi di misticismo assoluto e macerante, si andarono costituendo in ogni parte della Calabria dei nuclei propulsori di attività monastica (i cenobi) e alcune comunità locali dette ghorioi (in pratica, dice Gianni Carteri “estensione delle grangie che erano guidate da un Iereus o Abate”). Accanto ai cenobi, sorgeranno basilichette, oratori, cellae trichorae – di cui si occuperanno E. H. Freshfield ed E. Jordan -, chiesette ad unica navata, monoabsidate o triabsidate, di cui alcune di stampo tipicamente orientale, a pianta quadrata, a cinque cupolette. “Di questi monumenti calabresi – scrive Emilio Barillaro – che trovano riscontro in prototitpi reperibili in Armenia, in Georgia, in Anatolia, a Creta e nel Peloponneso, il più antico è forse il Battistero di S. Severina, il più genuino e puro è il S. Marco di Rossano, il più bello, completo e suggestivo, vero gioiello di architettura sacra, è la Cattolica di Stilo” (Terra di Calabria, op. cit., pp. 30 – 31).
        La cattolica di Stilo