Terre et mer dans une œuvre de Mario la Cava

IL MATRIMONIO DI CATERINA

par
Marie-Aimée Bayonne


            Au village, sur les collines, Caterina a trente ans et n’a vecu qu’entre père et mère, les murs de la maison, la broderie, les réunions ou les cérémonies de l’Eglise.
        Le regard sans vie «lo sguardo privo di vita», elle ne rassemble pas à ces filles de la ville, de la «marina» qui auraient plus naviguées «navigate più di voi» avant le mariage que leur fiancé. Elle n’a pas vecu mais elle a déjà «le mammelle pesanti come quelle delle donne maritate» dont elle ne fera jamais partie: vierge à l’âge et au corps de matrone.
        Le fiancé qui se présente, par chance et comme par hasard, vient du bord de mer. Il a vingt huit ans. Il est beau «bel giovane». Il a fait la vie «la vita che ho fatto…». Il aime beaucoup les femmes, la chasse, la dépense, le jeu. Invité au village il réveille les sens endormis depuis l’enfance de Caterina, mais il ne regarde que la servante à la robe rouge. Le père les découvrira tous les deux, fiancé et servante, dans la maison «al podere», et renverra le fiancé.

            Caterina, ou le village au milieu des terres.

            Le fiancé, Giuseppe, ou l’homme venu de la mer.

            Mais la terre ici ne sera jamais fecondée.

            Cette terre du Sud qu’on imagine, à travers d’autres textes, travaillée de forces obscures, inspirant à ceux qui l’habitent des passions primitives et interdites, de grands désirs païens, La Cava l’évoque, la désigne comme absente et refusée. Elle n’a pas, n’aura pas de nom “il paese” comme Caterina. Elle n’est ni regardée ni véritable-  ment habitée.
        Le père lui-meme en est séparé. Il ne la travaille pas: petit négociant, il parcourt les routes, traverse les villages pour recouvrer ses créances. 
La petite maison de chasse ne lui appartient pas. Elle est louée.
       
Tout l’espace est fermé, clos et noir: «le case che sembravano volessero nascondere la luce», sauf d’un côté, vers la mer. Mais Caterina refuse de poursuivre les promenades du soir au phare avec le fiancé par crainte des railleries et cette route précisément d’où l’on voit la Grèce selon le fiancé, mais d’où Caterina ne voit rien, est désormais abandonnée. Ne restent plus que le chemin du château où la citerne profonde affraie Caterina et la petite route qui descend vers le “podere” et vers le fleuve, où Caterina pour la première fois sent une bouffée de bonheur mais où finalement le fiancé choisira d’emmener la servante.
        Caterina à la fin du rècit pleurera la nuit derrière ses volets clos, exilèe de la vie, exilèe dans sa maison, dans son village, sans avoir connu près du fleuve les noces avec l’homme venu de la mer.
       
Car  la mer, où se pose le regard, d’où viennent la lumière (“i raggi infiammati”), l’aventure et l’amour sous les traits de Giuseppe, “bel giovane”, nouveau Dyonisos qui fait battre le coeur des femmes recluses, ne tient pas ses promesses.
        Le père insatisfait du marchè conclu avec le fiancè, avec le dieu païen de l’ivresse et de la vie prodigue, qui lui vend son vin mais dont il pressent quìil va se deroberavant le mariage, la mère qui oublie la clef de la cabane où Caterina aurait pu entrer le fiancè (il s’y trouve “una branda per dormire al tempo della vendemmia e il torchio”), Caterina a elle-même qui s’obstine à ne pas voir la Grèce, de l’autre côtè de la mer ionienne, y ont-ils jamais cru?
         Et le fiancè qui donnerait un nom à Caterina, qu’on ne connait jamais, n’est-il pas, lui, perverti par la citè en bord de mer, sans même avoir connu l’aventure? Sans travail, vivant d’expèdientes et de petits commerces, vaguement voyou comme on s’imaginait les Grecs et les habitants des ports dans la Rome antique, coureur de dots, èvitant le mariage? Et d’une ironie qui semble toute grecque, venue de l’autre côtè de la mer, dissolvante?
        Si la terre, le ciel toujours obscur, et la mer -les noces enfin- sont refusès à Caterina, à cette existence doucement meurtrie, exilièe de l’intèrieur, ils sont aussi au fiancè qui n’aura connu ni la mer, ni la terre, ni l’odyssèe de l’homme qui, après avoir gagnè la mer et connu le doux dèsir du retour, la nostalgie, accomplit ses noces.
         Si la femme se dessèche dans une vaine attente, si elle n’a ni identitè, ni vie, ni histoire, l’homme n’a pas d’histoire non plus. Les grandes ivresse païennes, les grandes noces de la terre et de la mer sont dèsormais impossibles, l’odyssèe interdite. Il ne reste plus que l’exil, sans que personne soit parti
 

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Terra e mare in un’opera di Mario La Cava

“IL MATRIMONIO DI CATERINA”

di
Marie-Aimée Bayonne


                Al paese, sui colli, Caterina ha trent’anni e ha vissuto soltanto fra padre e madre, le pareti di casa, il ricamo, le riunioni o le cerimonie religiose.
   
     Lo sguardo spento « lo sguardo privo di vita », lei non somiglia alle ragazze di città, della “marina” , più navigate loro del fidanzato prima del matrimonio « navigate più di voi ». Non ha vissuto, ma ha già « le mammelle pesanti come quelle delle donne maritate », della cui schiera non farà mai parte: vergine dall’età e dal corpo di matrona.
        Il fidanzato che si presenta, per fortuna e come per caso, viene dalla marina, ha ventott’anni, è bello « bel giovane », è navigato. Ha fatto la bella vita « la vita che ho fatto », gli piacciono molto le donne, la caccia, i soldi, il gioco.
        Invitato al paese, risveglia i sensi di Caterina sopiti fin dall’infanzia, ma non fa che guardare la serva dal vestito rosso… Il padre li scoprirà entrambi, fidanzato e serva, nella casa “al podere”, e scaccerà il fidanzato.

            Caterina, o il paese in mezzo ai campi.

            Il fidanzato, Giuseppe, o l’uomo venuto dal mare.

            Ma la terra qui non sarà mai fecondata.

            Questa terra del Sud che, tramite altri racconti, si immagina travagliata da forze oscure le quali ispirano a chi l’abita passioni primitive e vietate, desideri panici, La Cava evoca, indicandola come assente e rifiutata. Al pari di Caterina, la stessa non ha, non avrà un nome «il paese». Non è né guardata né abitata realmente. Il padre stesso ne vive separato. Non la lavora; piccolo commerciante, si sposta, attraversa i paesi per riscuotere crediti. La casetta per la stagione della caccia non è di sua proprietà, ma affittata.
        Tutto lo spazio è chiuso, circoscritto e buio «le case che sembravano volessero nascondere la luce» eccetto da un lato, verso il mare. Ma Caterina si rifiuta di continuare le passeggiate serali col fidanzato verso il faro: per paura di essere canzonata. Proprio questa strada, da cui, secondo il fidanzato, si vede la Grecia ma dalla quale Caterina non vede nulla, viene ormai abbandonata. Restano solo il sentiero che porta al castello, la cui cisterna profonda spaventa Caterina, e la stradina che scende verso il “podere” e il fiume, dove la ragazza sente per la prima volta una vampata di felicità. Il fidanzato sceglierà però, in definitiva, di condurvi la serva.
       
Alla fine del racconto Caterina piangerà di notte dietro le imposte chiuse, esiliata dalla vita, esiliata in casa propria, nel proprio paese, senza avere conosciuto in vicinanza del fiume le nozze con l’uomo venuto dal mare.
         Perché il mare, su cui si posa lo sguardo, da cui provengono la luce «i raggi infiammati», l’avventura e l’amore nelle sembianze di Giuseppe «bel giovane», novello Dioniso che fa battere il cuore delle donne recluse, non mantiene le promesse.
        Il padre insoddisfatto del mercato concluso col fidanzato, il dio pagano dell’ebbrezza e della vita prodiga a cui vende il proprio vino ma presagendo che l’altro si allontanerà prima del matrimonio; la madre, che dimentica la chiave della casetta nella quale Caterina sarebbe potuta entrare col fidanzato: vi si trovano «una branda per dormire al tempo della vendemmia e il torchio»; la stessa Caterina, che si ostina a non vedere dall’altra parte del mare Ionio la Grecia: vi hanno poi mai creduto?
        E il fidanzato che a Caterina dovrebbe dare un nome, che non conosciamo mai, non è forse pervertito dalla città sul mare, senza avere neppure conosciuto l’avventura? Senza lavoro, vivendo di espedienti e piccoli commerci, mezzo scapestrato, come nella Roma antica si immaginavano i Greci e gli abitanti dei porti, cacciatore di dote, che evita il matrimonio. E di un’ironia che sembra tutta greca, venuta dall’altra parte del mare: dissolvente!
        Se la terra, il cielo senza luce, e il mare, - le nozze, insomma – sono negati a Caterina, creatura ferita che non si lamenta, esiliata nell’intimo, terra e mare sono negati anche al fidanzato che non avrà conosciuto né l’una né l’altro, e neppure l’odissea dell’uomo il quale, dopo essersi messo in mare e aver conosciuto il dolce desiderio del ritorno, la nostalgia, celebri alfine le nozze.
        Se la donna si inaridisce in un’attesa vana, se non ha più identità né vita né storia, neppure l’uomo ha storia. Le grandi ebbrezze pagane, le grandi nozze della terra e del mare sono oramai impossibili, l’odissea vietata.
        Resta solo l’esilio, senza che mai nessuno si sia allontanato.


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