L’ODORE DEL MALATO E QUELLO DELLA MALATTIA

 di Giovanni Ruffo  

 

 

    Ogni lingua ha una propria definizione della malattia e nel definirla usa termini che, risalendo all’etimologia, appartengono a numerose e diverse fonti semantiche.   

    Dovendo qui accennare all’odore della malattia in genere, a quello proprio di una specifica malattia o addirittura a quello che percepiamo avvicinandoci ad un determinato ammalato, basterà chiarire il concetto di malattia adattandolo all’argomento di nostro interesse. Trattarne in maniera compiuta sarebbe andare fuori tema, dovendo necessariamente dare contenuto scientifico all’argomento.

    Quando si afferma che alla base della malattia esiste una lesione della struttura organica, si dice soltanto una parziale verità. La malattia non è costituita essenzialmente da questa “lesione”; la sua essenza risiede, più verosimilmente, nel complesso della reazione organica a quella lesione. In definitiva potremmo definire la malattia come “l’espressione della lotta dell’organismo nel suo complesso ad una lesione, al fine di conservare l’equilibrio dinamico al suo interno e controllare in misura conveniente le proprie reazioni con l’ambiente esterno”.

    Poiché sto togliendo contenuto scientifico al concetto di malattia, dandogli piuttosto essenza “sociale ed estetica” – costituita da un insieme di concetti che nella società contemporanea risentono della condizione sociale e del grado d’istruzione di quel determinato soggetto-, nell’accettare   una tale generica definizione bisogna tener conto delle malattie mentali e di quelle sociali, che non riconoscono nella loro diagnosi riferimenti fisico-chimici e biologici. In tali casi, infatti, la “normalità” non è riferibile soltanto alla biologia ma anche “a parametri sociali”.

    La mia esperienza di medico ospedaliero sanatoriale, vissuta negli anni cinquanta, mi porta a scrivere di una malattia, la tubercolosi, che una volta accertata comportava conseguenze sociali importanti per l’ammalato stesso e per il suo nucleo familiare. Più o meno lo stesso avveniva per la malattia mentale. Volendo dare un’ultima evidenza alla difficoltà di disporre in ogni caso di una precisa definizione della malattia, dando però soltanto valore sociale alla considerazione che sto per fare, si può affermare che, nelle due evenienze cui ho fatto cenno, la malattia era essenzialmente una realtà sociale evidenziata e resa concreta dalla professione medica. E per completare quanto più sopra scritto sul concetto di malattia, senza uscire dall’ambito della tubercolosi e della malattia mentale, si può affermare che un portatore di esiti calcifici polmonari di una vecchia malattia tubercolare sarebbe considerato sano da un clinico, mentre sarebbe definito ammalato da un patologo; un patologo potrà considerare sano il Pz affetto da nevrosi, che invece sarà ritenuto ammalato dal clinico, ossia dallo psichiatra.

    Quando nel corso del 1946 il Dr Piero Gomarasca, assistente di anatomia umana normale all’università di Milano, mi fece conoscere il Consorzio Provinciale Antitubercolare “Villa Marelli”, di Viale  Zara 81, diretto dal Prof. Belli, segnò il mio destino professionale. Mi sarei “perdutamente innamorato” della patologia dell’apparato polmonare, che allora era genericamente definita con il termine riduttivo “tisiologia”. Il Professor Belli fu negli anni un maestro prezioso che seguiva e stimolava il mio interesse per lo studio, e nello stesso tempo mi consentiva di fare, sotto il suo costante controllo, le prime esperienze di pratica clinica.

    Un giorno che arrivò un ammalato che effondeva già ad una certa distanza un particolare, nauseabondo odore “di carne andata a male”, me lo indicò dicendomi:  vagli accanto, senti l’odore del suo alito e rimanigli a lungo vicino. Vedrai che l’odore si modifica con la tosse e soprattutto con l’espettorazione.

    Non mi riuscì facile obbedire, ma l’esperienza fu preziosa. Mi fu poi dal Maestro illustrata la patologia causa di quel “fetore” e raccomandato di non trascurare mai, visitando un Paziente specialmente se da me non conosciuto, di ricercare e valutare tra i sintomi clinici anche gli “odori”, eventualmente percepibili. Il particolare fetore dell’ascesso polmonare, drenato all’esterno, mi è rimasto, per così dire, nelle narici e mi fu d’aiuto negli anni futuri.

    L’ammalato di tubercolosi polmonare, ricoverato nei sanatori talvolta per lunghissimi anni, offriva valutazioni olfattive a noi medici, ma soprattutto al personale infermieristico che gli stava più vicino di noi, che molto spesso rivestivano sostanziale importanza. La malattia tubercolare in fase acuta non era fonte di alcun tipo di odore. Questa malattia, di norma, interessava la funzione respiratoria soltanto tardivamente, ossia quando la colliquazione “caseosa” del parenchima polmonare era territorialmente tanto estesa da risultare inadeguata alla richiesta organica di ossigeno. Un tale Paziente già da tempo offriva al personale sanitario particolari percezioni olfattive che, secondo le circostanze, potevano essere generate da scarsa osservanza dell’igiene personale ( a volte l’impossibilità o per la difficoltà di muoversi dal letto), o dallo stadio evolutivo della malattia, o essere dipendenti dal sommarsi delle due realtà. Il tisico, affetto da insufficienza respiratoria, era un ritenzionista cronico di anidride carbonica e come tale aveva alito di odore acido, più o meno intenso. Anche il sudore era d’odore che eravamo soliti definire “fermentato”, nel nostro gergo di corsia. Il vomito in questi Pazienti era frequente, specialmente nei primi tempi, quando il metabolismo organico non aveva avuto ancora il tempo o i mezzi di ricorrere ai vari meccanismi di compenso; era vomito di consistenza mucosa, fortemente acido e di odore sgradevole e penetrante.

    Quando il vomito cessava lo sostituiva, solitamente, una strana eccitazione di non lunga durata, seguita da uno stato di sopore o d’indifferenza all’ambiente, che poteva durare anche mesi. Il paziente era soggetto a pirosi gastrica ( che attenuava ingerendo generose dosi di bicarbonato) ed a crisi improvvise di sudorazione che aveva odore acuto e, meno di frequente, a scariche diarroiche fetide. Quando tale circostanza si verificava con una certa frequenza causava sanguinamento della mucosa peri anale e, talvolta, anche infezioni. Un brutto giorno l’ammalato sembrava uscire dal sopore e chiedeva con insistenza cibo. Aveva il volto asciutto e con i pomelli “ di brace”, l’alito meno “forte” del solito. Per il personale infermieristico era il tragico sintomo di morte imminente ed il sanitario preposto, di reparto o di guardia, si affrettava ad avvertire i parenti. L’evento letale si sarebbe immancabilmente verificato nel volgere di poche ore. Un tubercolotico cronico, che arrivava allo stadio che nel nostro gergo era definito della “consuzione”, “moriva mangiando”. Tale triste evento era di facile spiegazione: quando l’alcalosi metabolica non riusciva più a compensare l’acidosi respiratoria, l’organismo compiva un ultimo, disperato tentativo di compenso incrementando improvvisamente la secrezione di acidi gastrici ( il migliore degli eupeptici, perché “fabbricato” dalla natura) responsabile “dell’ultima fame”.

    Nuova, doviziosa fonte di odori particolari era costituita da un altro temibile esito della malattia tubercolare in fase cronica: la fistola pleuro-polmonare o quella bronco-pleurica, generatrici entrambi degli empiemi pleurici, ossia della suppurazione della cavità pleurica ad opera di bacilli molto spesso non tubercolari.

    Tale patologia, se non drenata all’esterno, non era causa di odori. Il drenaggio poteva essere, come nella maggior parte dei casi era, chirurgico, ma anche spontaneo.

    Mentre nel primo caso era il medico ad introdurre un drenaggio, costituito da una particolare sonda di gomma, nella cavità pleurica sede di suppurazione, nel secondo caso era la suppurazione stessa ad aprirsi la strada all’esterno, corrodendo i tessuti che costituiscono la parete toracica. In medicina si definisce “empiema necessitatis” ed è definizione che riconosce all’evento un indispensabile quanto provvidenziale ed autonomo intervento riparativo dell’organismo. Era evenienza molto rara, che si generava fuori degli ospedali. Nei nostri ospedali l’empiema pleurico era tempestivamente drenato, perché le scarse possibilità di guarigione erano strettamente legate alla precocità dell’intervento. Ricordo un ammalato che arrivò a noi dalla Sardegna, con un empiema spontaneamente drenato all’esterno attraverso un tragitto fistoloso di dimensioni “enormi”: una breccia cutanea di diametro di cinque centimetri! Aveva curato la “propria malattia” (della cui natura non aveva la più pallida idea) a modo suo, usando “farmaci” naturali e continuando a vivere da pastore in montagna.

    L’odore delle secrezioni empiematiche aveva caratteristiche particolari ed era strettamente legato non alla lesione, ma al tipo di germe che aveva generato la suppurazione. I germi cosiddetti anaeorobici (ossia quelli che manifestano la loro attività patogena in assenza di aria) erano responsabili di odore putrido, persistente nell’ambiente. Quando si sovrapponeva agli anaerobi il Piocianeo (un germe particolare, chiamato anche Pseudomonas, che trova facilità di vita negli organismi particolarmente deboli o anche indeboliti da lunghe e particolari cure. Se si fosse trattato di un membro della nostra società lo avremmo definito con il termine dispregiativo di ladro di polli), ripeto, se agli altri germi si sovrapponeva il Piocianeo, all’odore nauseabondo si aggiungeva il colorito verdastro delle secrezioni.

    In questo caso, oltre all’olfatto, contribuiva a precisare la diagnosi l’organo della vista e non era combinazione di scarso valore pratico, poiché precedeva la “diagnosi di laboratorio” almeno di otto giorni.

    Anche il sangue delle “grandi” emottisi aveva l’odore particolare della colla, quella che chiamavamo di pesce. Bisogna però far presente che a quel sangue erano commiste, in varia quantità , secrezione provenienti dalle lesioni cavitarie.

    Forte di una mia occasionale esperienza personale possono coinvolgere la partecipazione di un terzo senso, nella tipificazione dell’emottisi: quel sangue ha sapore decisamente dolciastro e, più o meno, lo stesso sapore hanno le secrezioni bronchiali purulente. Negli anni cinquanta il broncoscopio era costituito da un lungo, rigido tubo d’acciaio e non era raro che, nel corso dell’esame, un fiotto di sangue o un “malloppo” di catarro (riccamente bacillifero) arrivassero in faccia o direttamente in bocca all’operatore.

    In corsia si potevano percepire altri odori, che, se non erano direttamente causati dalla malattia, tubercolare, erano in qualche modo ad essa indirettamente collegati.

    Uno di tali odori era ricercato con scrupolo particolare, dal personale infermieristico, sempre efficiente negli ospedali sanatoriali; ma erano le suore – le cosiddette suore Cappellone – ad avere un fiuto speciale per quel genere di odore: era l’odore di sperma, che nel gergo di corsia era definito “odore di pasta di casa fresca”.

    Occorre una precisazione. Nei nostri ospedali i due sessi erano tenuti rigorosamente separati. Tuttavia, nonostante la più diligente sorveglianza, a volte capitavano incidenti incresciosi, che coinvolgevano la responsabilità anche dei sanitari, se uno dei due protagonisti era una giovanissima degente.

    Si affermava che fosse la malattia tubercolare a generare vivaci stimoli sessuali ed a conforto della tesi si citava l’esempio dei sanatori “unisesso”, dove si diceva avvenisse di tutto.

    Nulla di più falso, per quanto riguarda la malattia. Più verosimilmente la causa poteva essere individuata nella concomitanza di diverse “occasioni”:

-         la prolungata degenza vissuta senza altre preoccupazioni che non fossero di salute (ma dopo qualche mese ci si abituava). I nostri ricoverati si abituavano con facilità ed in breve tempo alla lontananza della famiglia.

-         il lungo, sonnacchioso riposo giornaliero in comode sediesdraio;

-         la lunga segregazione non priva però di svaghi (cinema, teatro, spettacoli di riviste anche musicali e di prima importanza, conferenze),

-         talvolta il pensiero dell’incertezza del domani, maturato nel particolare ambiente proprio del sanatorio, dove era facile concepire perfino sentimenti di rivalsa nei confronti della società “dei sani”.

    La somma di tutto questo era sicuramente capace di allentare i freni inibitori nell’uno e nell’altro sesso.

    Gli incontri tra i due sessi avvenivano nelle occasioni più imprevedibili e nei luoghi più impensabili, ed erano assolutamente “frettolosi”. Non sempre esisteva per la donna la possibilità di ricorrere a pratiche di igiene intima, dopo un tale incontro, motivo per il quale la particolare sensibilità olfattiva della Cappellone spesso individuava l’accaduto. Inutile l’uso di profumi; anzi pericoloso, perché serviva a richiamare l’attenzione delle “nasatrici” in tempi brevi, l’olfatto poteva permettere perfino di individuare il luogo dell’incontro, che era ispezionato e subito si badava a renderlo inaccessibile o inadatto.

    Nei reparti maschili non c’erano nasatori. Era questa una realtà sanatoriale e … tanto basti.

    Per completare l’argomento ricorderò che l’avvento dei farmaci antimicobatterici (ossia degli antibiotici ad azione specifica contro il bacillo tubercolare) in pochi anni rese inodori le nostre corsie: il “trauma” a livello governativo fu tale  che determinò addirittura la soppressione degli Ospedali Sanatoriali. Noi tutti, medici e paramedici (ma anche alti funzionari del Parastato), non ci eravamo accorti della scomparsa degli odori nelle nostre corsie. Provvide ad informarci una legge dello Stato… e tanti di noi rimasero folgorati; tutti rimanemmo disorientati.

Chissà se lo stesso avvenne agli specialisti Psichiatri.