Parte nona – OSSESSIONE

Capitolo 1 - Capitolo 2

 

 

         
 

 

 

CAPITOLO 1

 

 

...Ancora una volta la mestizia della mia casa vuota mi accolse, mentre in cuore avevo un nodo di pianto che presagivo sarebbe rimasto per tutto il resto della mia vita. Chiudendo la porta alle mie spalle, guardai a terra, con l'angoscia che quel demonio mi avesse messo, nuo­vamente, un suo qualche messaggio satanico. No, non c'era nulla ed anche nella cassetta della posta non vi era niente. Incredibile ma vero, ciò mi scorò maggiormente ed acutizzò la mia ansia.

Sapevo che non avrebbe abbandonato i suoi demenziali propositi d'odio e di morte e questo nebuloso periodo di pausa, d'attesa snervante in cui ero cosciente che quello aspettava nell'ombra per colpirmi, mi consumava più e peggio che la lotta stessa. In più lui era per me un nemico sconosciuto, nel senso che ne ignoravo l'aspetto fisico, sicché egli poteva essermi accanto in ogni minuto, per strada, in autobus, per­sino nella sede del mio giornale. Quindi ciò m'imponeva di non abbas­sare mai la guardia, di essere sempre vigile e sospettoso di tutti e di tutto.

David O'Connor che avevo informato del mio ritorno nel Connecticut, con dolce insistenza, premeva che io andassi da lui. Era preoccupatissimo di sapermi solo, in balia certa di quel pazzo. Pensava che la sua vicinanza mi avrebbe un po' confortato e contemporaneamen­te, poiché egli ben conosceva il volto del Bosas, avrebbe in un certo qual modo potuto aiutarmi a prevenirne le mosse. Ma io esitavo ad accettare l'affettuosa offerta, sia perché temevo di coinvolgerlo nell'odio di quel mostro, sia perché speravo sempre che potesse avvenire qualcosa, ed io stesso non sapevo cosa, che mi desse una qualche notizia di Selenya.

Avevo anche, pur su consiglio del pastore, pensato di mettere in vendita quella maledetta proprietà di Blackvalley, ma mi rendevo conto che pochissimi sarebbero stati interessati ad acquistare in un luogo così impervio una casa circondata poi, ahimè, da tanta infausta atmosfera di morte e d'incubo. D'altra parte i miei servizi giornalistici erano ormai un ricordo, quindi la mia situazione economica incominciava ad essere drammatica. Pur tuttavia, per me vendere quella casa voleva dire rinun­ciare all'ultima speranza di ritrovar tracce di Selenya ed io continuavo a pensare che forse, in qualche mobile, in qualche angolo, nel posto più inimmaginabile e nascosto, potesse esserci qualcosa.

Non ero ancora ritornato a Blackvalley dopo il mio rientro dalla Grecia. Il pastore me lo aveva assolutamente proibito ed io stesso, pur così esacerbato e sotteso alla ricerca del duello finale, mi rendevo conto che andar colà da solo era davvero un autentico suicidio. Lo sconosciuto, che tale per me era il Bosas, padrone molto più di me dei mille traboc­chetti e delle vie segrete della casa, avrebbe potuto colpirmi alle spalle, o nel sonno o in qualsiasi stanza, facilmente. La coscienza di ciò mi sconsigliava razionalmente di correre in quel tetro luogo, ma contempo­raneamente mi accresceva la penosità di un'attesa vuota e logorante.

Infatti non accadeva nulla ed io vegetavo, passando sempre mag­giori ore chiuso in casa, solo con quell'angoscia, con i miei dolenti ricordi, con quel lumicino ingannevole di speranza che affievolendosi mi consumava d'ansia.

L'unica cosa che segnava momenti di pausa alla mia depressione era la conduzione del mio amaro diario via via radiotrasmesso nelle puntate di questo programma. Era mio mirato desiderio che gli "Amici del Giallo" che seguono la trasmissione potessero con me partecipare a questa estenuante ricerca.

Perciò con questo spirito, avevo aperto il mio racconto con acco­rato appello per il ritrovamento della mia irreperibile araba fenice. Ricor­date? Era l'autunno del '92 e poco dopo la mia luna si eclissava nel cratere del mostro... Così, sin da allora, da questa emittente radiofonica ho iniziato a mandar in onda, puntata dietro puntata, queste pagine do­lentissime in cui la realtà nella sua crudele drammaticità superava di gran lunga il romanzo fantastico. La singolare trasmissione, radio detective con la collaborazione degli ascoltatori, parve aver, fin dalle prime pun­tate, un grandissimo successo e furono in moltissimi ad appassionarsi a questa tremenda storia. Tuttavia, a me non interessava l'alto indice d'ascolto, bensì la possibilità che giungesse quella cotal telefonata che mi desse qualche altro costruttivo filo d'indagine, più che su Selenya che speravo sicura in Grecia, sugli spostamenti del Bosas.

Ed ecco, che fra tante una telefonata giunse... Ero in sede radio, quando il telefono squillò per Ronny Masters. Al mio "Pronto", sempre ansioso, dopo un attimo di silenzio in cui potei percepire distintamente un respiro asmatico ed ansante, una voce roca ed avvinazzata, mi sillabò: "Topo, il gioco comincia a non piacermi più! Ed ora ti schiaccio. Se non mi servi, ti ammazzo, perché io solo vinco, io che sono il padrone... sono il sole... il sole che non si fa vincere dalla luna...".

E qui, come una lama tagliente, quella mefistofelica risata gorgo­gliò nella cornetta, facendomi sussultare...

Non proferii parola, sotteso com'ero a captare il massimo. Fortu­natamente appena presa la comunicazione, per come ero solito, avevo messo in moto il registratore, riprendendo totalmente la conversazione e la folle risata del vecchio.

Mi sembrava, mentre quel sinistro ululato si prolungava, che forse l'interlocutore sbattesse la testa, girandola velocemente, poiché il suono giungeva come da due successive fonti erogatrici. Poi, egli, con un ran­tolo orribile da bestia, farfugliò: "Hai paura, topolino? Io ti schiaccerò il collo tra le mie mani, clahash clahashcc...".

Ero un bagno di sudore gelato ed in me si mescolavano tumultuo­samente sentimenti di rabbia e di paura, di odio e di angoscia per Selenya. Ma su tutto prevaleva una furia, costi quel che costi, di ammaz­zarlo e di mettere un punto a quell'orribile incubo. Quel pensiero mi assillava e non mi riconoscevo più in quella sete di morte: che ne era del Ronny Masters, bravo ragazzo, scanzonato giornalista e affascinante latin lover?

Informai subito la polizia locale, facendo sentire l'effettuata regi­strazione ed anche il commissariato di Soldlake. Il sergente Parker che mi era amico telefonò subito alla questura locale, insistendo che mi venisse assegnato un poliziotto di guardia, poiché era certo che il pazzo avrebbe tentato in tutti i modi di uccidermi. Ciò malgrado mi consigliò caldamente di partire e di andarmene in un luogo ove potessi essere più sicuro. Mi sentivo davvero un topo in trappola, totalmente indifeso di fronte alla demenza omicida del Bosas e cominciavo ad avvertire, pur senza effettivi riscontri, sensazioni di presenze a me vicine e di essere continuamente spiato e seguito...

Il telefono di casa mia più volte squillò e al mio - pronto? -, la risposta fu solo quella risata, orrida per i miei nervi tesi. Anche di notte quello squillo mi svegliava di soprassalto, annunciandomi con l'ansare o con il riso dell'interlocutore, prossima sicura morte... Capivo che gioca­va sulla tecnica dello sfinimento, bestialmente divertendosi a logorarmi i nervi, sicuro poi che avrebbe avuto la vittoria! Ma quando la sua pazzia avesse deciso il basta, allora, lo sapevo, avrebbe colpito selvaggiamente. Ed io nulla potevo fare contro di lui!

La sola cosa che mi dava coraggio, era il pensiero che, finché perseguitava me, in quel gioco infernale di morte, Selenya era al sicuro e con lei Theanò e il notaio, se quel minuscolo biglietto doveva così essere interpretato. Se lo scritto era suo, e di ciò ero quasi sicuro, egli doveva aver subito chissà che cosa magari proprio agli occhi; questo si deduceva da quelle poche parole mal scritte (Anche questa, che storia assurda, sul limite dell'impossibile e dell'irrazionale!).

Se... se... mille se flagellati di dubbi, di irragionevolezze, di sì del cuore che eran no della mente...

Continuavo a chiedermi: se non era il suo il cadavere di cui mi era stata data comunicazione dal consolato, di chi mai si trattava?!

Era forse egli in macchina con questo misterioso qualcuno, morto al suo posto? E lo scambio di persona era stato accidentale?

Pareva che una potenza spietata mi perseguitasse, proponendomi sempre nuovi enigmi, l'uno più dolente ed ingarbugliato dell'altro: que­sta orribile vicenda era tutta irta dei chiodi del dubbio ed io dovevo stare attento, nel narrare le sequenze di avvenimenti alla radio, di non rivelare qualcosa che potesse dare carta vincente a quel mostro, svelandogli se­greti sconosciuti. Sì, mi sembrava di essere nella fossa dei leoni e in realtà lo ero perché la belva attaccò...

Non aprivo più ad alcuno la porta di casa e uscivo solamente per andare alla radio o al giornale, in taxi, con il poliziotto a pochi passi da me.

 

 

 

CAPITOLO 2

 

 

Quel giorno diluviava e per questo avevo dovuto aprire l'ombrello, essendosi il tassista fermato qualche passo più in là del mio portone. Mi ero guardato attorno, guardingo e diffidente, come al solito. Ma nulla mi era sembrato sospetto!... Fu un attimo e non so spiegare come: nella frazione di tempo in cui, chiuso l'ombrello, feci per entrare in macchina, un'automobile, sbucata dall'angolo, passò a folle velocità sul marciapie­de, rasente lo sportello aperto... Quasi per un'infinitesimale porzione di tempo, non mi spappolò! Ancora non so rendermene conto! Probabil­mente fu quel lieve scarto di minuto in più che la macchina impiegò a salire il marciapiede presso cui era parcheggiato il taxi, a salvarmi: infatti ero appena sgusciato dentro.

So che fu un colpo orrìbile e lo sportello contorto e sfracellato saltò, lo fui letteralmente catapultato dall'altra parte della vettura. 11 colpo fu tale che per mia fortuna l'altro sportello si aprì ed io, cadendo quasi fuori dall'abitacolo, non mi spaccai la testa contro il vetro.

Purtroppo il poliziotto di guardia che era fermo sul primo gradino del mio portone, fu investito, poiché l'automobile, lanciata a tutta velo­cità, sfrecciò sul marciapiede. Fortunosamente l'uomo, con riflessi d'ac­ciaio, era riuscito a fare un balzo sul gradino successivo; quindi l'urto non lo ricevette in pieno, rimanendo, tuttavia, ferito alle gambe, ma in maniera non letale. Ciò malgrado riuscì a sparare ripetutamente, però, la macchina, con uno zigzag stridente, forse agevolata dall'asfalto bagnato che aumentò l'obliquità della serpentina, si dileguò girando l'angolo...

Il tentativo di omicidio era stato evidentissimo e per questo fui caldamente invitato dal commissario a lasciare per un periodo la città.

Sul Bosas s'infittirono le indagini. Da allora scattò una caccia all'uomo, segnalato come pazzo pericoloso. Il commissariato di Soldlake inviò l'identikit che si era potuto fare grazie alle descrizioni della came­riera Rosy e della cuoca Kora che concordarono con quelle del tassista che per miracolo non si era fatto nulla, trovandosi ancora fuori della macchina. Appena possibile fu sottoposto lo schizzo al poliziotto in ospedale che, sia pure nell'attimo fulmineo dell'incidente, aveva potuto vedere colui che era al volante. Tutti descrivevano un vecchio dalla faccia larga e truce, da cane bulldog, con i capelli grigi crespi e arruffati e la corporatura alta e potente, ma pesante e disarmonica. Aveva braccia lunghe con impronta scimmiesca e, stranamente, un passo felpato e quat­to quatto. Inconfondibili gli occhi verdissimi, con sguardo da folle!

Io, intanto, restavo traumatizzato e stupefatto come ancora una volta fossi riuscito a scampar vivo a quel maledetto Bosas, quasi che avessi uno strano nume tutelare che momentaneamente mi preservava per il futuro olocausto. E il Bosas era stato ferito dal poliziotto?.

Così, emigrante perseguitato da una specie di nefasta sorte, ancora una volta mi accinsi a partire, col mio fardello di sterile disperazione e con una specie di angosciato presentimento di portar disgrazie e morte anche all'unica persona amica che ancora mi restava: il pastore O'Connor.

Scortato da un poliziotto, fui all'aeroporto e come un automa, presi l'aereo per le Bermuda.

Ormai mi sembrava che il mondo e la gente non esistessero più. Al di fuori di me era solo l'ombra crudele e forsennata di quel cane che aveva distrutto la mia vita e quella di tante persone a me care e che aveva fatto male a quella dolce indifesa creatura che io ogni giorno di più mi accorgevo di amare disperatamente.

Gente, arrivi, partenze, arrivederci ed addii, ed io, una larva con gli occhi cerchiati, colmi d'ombre, ancora una volta, come una pagliuzza sul pelo dell'acqua, andavo...

L'altoparlante (dieci? cento?) dava direttive e a me pareva che quella voce femminile fosse quella di un'ape-robot che comandava fantomatiche traiettorie di corse, inspiegabili ordini di movimento a scia­mi di valigie corporee che correvano su assurde rotelle...

Esausto, avrei voluto che su quell'aereo non il mio corpo, logorato dallo stress, ma la mia anima si spegnesse, per poter bussare alla stretta porta del riposo.

Ora solo pace volevo, al di fuori e al di dentro di me stesso. Volevo non pensare perché avevo paura di scoprirmi pazzo, volevo non odiare per paura di essere vinto, volevo non amare perché quell'amore era solo un delirante martirio per la mia sconfitta.

Volevo non volere più nulla...