Parte sesta – IL PROFUMO DI UN ALTRO FIORE

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CAPITOLO 1


     Le Bermuda!... Quelle isole con il loro fascino stregato e con la credenza che nelle loro acque, nel cosiddetto Triangolo del Diavolo, avvenissero inspiegabili fatti, mi ossessionavano, quasi fossero l'ultima emblematica spiaggia su cui indirizzare la mia disperata ricerca. Così, puntai su quelle terre, pur se dentro di me era un caos di pensieri e un tremendo disorientamento di ricerca, nonché il vuoto amaro e grigio della solitudine... Per il lavoro, annunciai una serie di servizi giornalistici ad hoc.

Non voglio narrare quali furono i miei giorni colà... Brancolavo nel buio e tutte quelle isole, quella gente, quelle vie e viuzze, quelle spiagge magiche su quel mare infido e persino quelle case e quelle usan­ze erano per me fonte di una spasmodica ricerca di un qualcosa che io stesso non sapevo, ma che aveva solo e soltanto un nome e il suo oppo­sto: Selenya e... Quello!

Anche le tante bellissime ragazze brune che incontravo, che spia­vo, che inseguivo, sperando che, chissà, si avverasse il miracolo di ritro­varla, più non erano nulla per me, che un tempo ero stato un appassio­nato amante della bellezza femminile. Mi sentivo spento e invecchiato, molto di più che in realtà!

Ma, finalmente, perché forse anche per me brillava una pietosa stella, nell'isoletta di Three Flowers ebbi la prima rivelazione. Instanca­bilmente, chiedendo, interrogando, rovistando carte e documenti di ogni tipo, ecco che, da una specie di anagrafe locale, appresi quanto segue: colà e precisamente nell'ultima isoletta di coda del grappolo delle Ber­muda, la più a sud-est, quella che, come ho detto, si chiama Three Flowers, l'isola dei tre fiori, oltre mezzo secolo prima, erano nati tre fratelli, anzi, precisamente, due fratelli e una sorella, a nome Bosas: Hander Bosas, Silver Bosas, di due anni più giovane del precedente e, cinque anni prima, una sorella: Selenya Bosas! "Sì, Selenya Bosas!...". Questa notizia singolare in realtà a me diceva un qualcosa, non sapevo ancora se tanto o poco: se non si trattava di una dannata omonimia, il vecchio giardiniere del castelletto, Hander Bosas, era, ad­dirittura, il fratello dell'antico proprietario di tutta quella nefasta proprie­tà, poi acquistata dal cugino Reginald Kefrai e da noi, disgraziatamente, ereditata, dopo il periodo di usufrutto vitalizio di... di un giardiniere che era poi, guarda un po', proprio il fratello dell'ex proprietario...!

Un rompicapo, un rebus che, se non avesse causato tanti lutti e tante lacrime, avrebbe, forse, divertito un detective buontempone!...

Ma per me la faccenda era un atroce chiodo fisso, senza spiegazio­ni.

Ma stavano poi veramente così le cose? Sui dati anagrafici del giardiniere ero certo, avendomeli, a suo tempo, comunicati il notaio Nick Ferguson, poiché riguardavano l'eredità di Blackvalley. Ma il fratello, Silver Bosas, dì cui si parlava nel documento ritrovato, era poi lo stesso Silver Bosas, ricchissimo, vecchio proprietario del terreno e degli immo­bili di Blackvalley? Tutto faceva pensare che fosse questa la stupefacen­te, inimmaginabile realtà!

Precedentemente di costui avevo saputo che era originario delle Bermuda e che, dopo un soggiorno di alcuni anni in quella selvaggia località presso Stockwell, con la giovane figlia, se ne era tornato nelle native isole, perché temeva che la ragazza si fosse legata, con una tenera amicizia sentimentale, da lui non condivisa, ad un giovane ebreo, con cui egli aveva - difficili - rapporti d'affari. Questo asserivano Kevin Ross, il padrone dell'armeria a Stockwell e Tommy Bird, locandiere del Time Out, che, però erano stati volutamente vaghi. L'uomo pertanto stanco di questi traffici assai remunerativi, ma parecchio loschi, volendo con la figliola rifarsi una vita pulita, si era stabilito altrove. E altrove si era cercato un altro lavoro. Così Silver Bosas era sparito, portando seco la ragazza che non era in ottime condizioni di salute, onde, con la lontanan­za, distruggere quel rapporto d'amore. Da allora si era persa ogni traccia di loro.

Questo era tutto quanto io ero riuscito a sapere sino a quel momen­to. Adesso, però, quel legame di parentela fra i due Bosas mi apriva ipotesi nuove ed inquietanti che gettavano anche ombre su quella inspie­gabile compravendita del cugino Reginald di Blackvalley.

Ma soprattutto, nella mia mente, il chiodo più straziante era quel nome della sorella: Selenya Bosas! Proprio proprio la mia testa si perde­va, arrovellando spiegazioni che non c'erano... Selenya, quel nome così raro e così tipico, un nome di origine greca, che in greco vuol dire Luna e che qui nulla significa, tranne un'impossibile coincidenza. Ed allora? In questa terra, così lontana dalla regione ellenica, il nome certamente non usato, non trovando spiegazione alcuna, rendeva dolorosamente suggestiva l'ipotesi di un qualche sconosciuto legame con colei che era ormai il tormento della mia vita, la mia piccola, indifesa, adorata Selenya Weefor... Kiryakopulos!

Malgrado l'incanto di quella terra, di quel mare incredibilmente azzurro, di quei tramonti infuocati che accendevano l'altalenare delle onde, ornate di lievi merletti candidi di spuma, di intensissimi, mobili riflessi, quei giorni a Three Flowers furono per me solamente febbrili e angosciosi, irti di spine, di domande senza risposta.

Non dormivo che appena qualche ora per notte, passando il resto del mio tempo o nella bettola del porticciolo, o nelle strette viuzze, tra casette candide e giganteschi palmeti.

Nei brevi attimi di pausa che m'imponevo razionalmente, buttavo giù degli articoli di folclore locale che inviavo al mio giornale, per rica­vare qualcosa da vivere e non perdere il posto.

Dai vecchi del luogo, in verità assai chiusi e diffidenti, che parla­vano solo dinanzi ad un buon sorso di rum, seppi unicamente che i due fratelli Bosas si erano entrambi imbarcati e che in più, non si sapeva come, avevano fatto fortuna, girovagando per terre e per mari... Hander Bosas ritornava di tanto in tanto, in visite rapidissime, per incontrare gli amici, diceva, ma in realtà quando nell'isola maggiore attraccava una certa nave proveniente da Città del Capo.

L'altro, invece, Silver, era rientrato colà dopo tantissimi anni di assenza con una giovane figlia che poi era andata sposa a qualcuno di un'isola non distante. Però, dopo qualche anno, anch'egli era partito, non si sapeva per dove e non era più tornato. Della sorella, invece, nessuno sapeva niente, tranne che pareva fosse andata via giovanissima.

Qui le mie indagini sembravano arenarsi e l'unica cosa che ritene­vo di poter dedurre, con una discreta base di certezza, era che la cono­scenza tra il cugino Reginald e i Bosas era certamente basata su legami per illeciti traffici, probabilmente di diamanti. Pertanto, forse, l'incom­prensibile compera della tenuta di Blackvalley era meno - spontanea -di quanto apparisse...

Quindi la permanenza di Hander al castelletto, sotto la veste di giardiniere tutto fare, era solo un pretesto. Hander Bosas era quasi cer­tamente o il capo o uno dei pezzi grossi di un contrabbando, probabil­mente di preziosi, dato che Reginald Kefrai e suo padre, Arthur, il ban­chiere, si interessavano di detto commercio. Così, Reginald, per chissà quale sbagliato giro d'affari, era caduto nella rete dei Bosas che, forse, lo ricattavano.

Solamente alla luce di tali supposizioni, si poteva spiegare come un uomo brillante ed amante della vita mondana si potesse esser ridotto a vivere a Blackvalley, in quel luogo malsano e impervio, quasi prigio­niero con la sua giovanissima Theanò nel castelletto, dove, a dir del notaio, riceveva di tanto in tanto dei cosiddetti amici, per brevissime visite, di cui non rivelava lo scopo neanche a sua moglie.

...Stressato da sì lunga catena di giorni interminabili che iniziava­no e finivano con una sterile ricerca, il mio spirito e il mio corpo, logo­rati, cadevano sempre più di frequente in una fissità di pensiero e in una rigidezza di movimenti che mi sfinivano. Passavo ore ed ore dinanzi a quel mare che sapeva colorarsi così fantasticamente dai violetti più sfu­mati ai verdi più cupi; mobilissime, poi, quelle acque smeraldine si cangiavano in tutte le tonalità di azzurri che, qua e là, sulle creste delle onde, si diluivano in turchini, per poi incupirsi nei seni delle onde in blu più intensi.

Restavo immobile, ipnotizzato da quel prodigio di colori, da quella musica di sciacquìi, di mormorii, fisso su un solo disperato desiderio: Selenya!

Poi, quando quelle notti che erano tutte un intarsio brillante di stelle, mi sfioravano col loro alito caldo e suadente, ritornava il ricordo di mia madre, dei miei zii, tutti affetti insostituibili che la diabolica beffa dell'eredità mi aveva strappato. Mi rivenivano dinanzi agli occhi quei volti amati e nel mio cuore, già così stremato da tante, troppe emozioni, ricordi, inutili speranze, scendeva una nebbia amara in cui la dolcezza delle memorie si fondeva a tanta sofferenza. Così, rimpianti e rabbia, ansia e inconcludenza, mi pesavano, dandomi una pena che non so de­scrivere. Quanti morti nella mia vita, quanti e in così poco tempo!... E tutti inutilmente morti, poiché nulla, proprio nulla si era potuto fare per Selenya... E tutte quelle persone a me carissime, direttamente o indiret­tamente, erano state spazzate via dalla crudeltà demente di quel demonio: vittime innocenti, sacrificate all'altare di quell'incarnazione satanica!... Solo, forse, Selenya... e non osavo concludere il pensiero, che persino nei più segreti condotti dell'anima era quell'urlo di rifiuto che mi ruggiva dentro... Ma a che serviva?...

In me sorgeva un furioso desiderio di vendetta contro quell'essere senza volto che teneva prigioniera chissà dove e chissà poi perché la mia Selenya, posto che fosse ancora viva, come io mi ostinavo a voler cre­dere. Ma dov'era, dove, dove, dove!!!...

Io ero solo con l'ignoto, solo, ora che anche l'ultima forza amica mi era stata tolta. Sì, infatti, dopo aver ricevuto quello strano e forse assurdo telegramma, del notaio Nick Ferguson non avevo più nessuna notizia...

Prima di partire per le Bermuda, in verità, avevo lasciato la chiave della cassetta delle lettere ad un mio collega del giornale che conosceva le mie dolenti vicissitudini. Lo avevo pregato di ritirare giornalmente la posta e di telefonarmi se credeva esservi qualcosa d'importante; altri­menti lo facevo io settimanalmente.

Una sera che ero appena rientrato nel mio modesto alberguccio, mi giunse la telefonata. L'amico mi diceva che era arrivata una lettera dalla Grecia. Ansiosissimo, pensando che si trattasse di una lettera del notaio, gli dissi d'aprirla e di leggermi il contenuto...

Ahimè, quel destino crudele e persecutorio mi sparava un altro colpo al cuore!

Dal consolato greco mi veniva comunicata la terribile notizia: in viaggio per la fantomatica Knopulis in cui avrebbe dovuto trovarsi quel certo podere Polissena di cui parlava Theanò nel breve messaggio alla figlia, egli era perito in un tragico incidente della strada, investito da un grosso camion che aveva distrutto la sua macchina, uccidendolo sul colpo...

Dato il tremendo stato in cui la polizia aveva rinvenuto il corpo, il riconoscimento era stato effettuato esclusivamente in base ai documen­ti che erano addosso al cadavere. Per quanto mi era stato comunicato in seguito ai rilievi della polizia stradale di Kaphos si era trattato di un'er­rata manovra di sorpasso da parte del notaio. Però in me, chiuso dentro come un nodo di fuoco, era rimasto un dubbio atroce, anzi una sbigottita intuizione: che in realtà non si fosse trattato di una disgrazia, ma del ripetersi, in altra sede e con altra persona, dell'incidente in cui anch'io per puro caso non avevo perso la vita. E se così era, la mano omicida era la stessa, con la stessa intenzione: impedire che si venisse a sapere qual­cosa. E se il mio qualcosa era a Blackvalley, quello del notaio era in Grecia, sulla via che portava a Mirakys. E lì chi vi era? O cosa c'era che non dovevamo conoscere? Nella mia testa stanca questo pensiero, già tante volte sfiorato assieme a tanti altri in quel labirinto di congetture, ora mi sembrava d'interesse primario, anzi così impellente e vitale, che de­cisi di partire immediatamente per andare in Grecia. Forse lì, mi dicevo, forse è il bandolo di questa intricata matassa.

E se poi Theanò fosse veramente ancora viva? E se Selenya, in disperata ricerca della madre, tormentata dai folli ordini di quel mostro che ricercava la veste occultante i diamanti di cui sia la ragazza che Theanò avevano parlato, si trovava in qualche luogo della Grecia, magari in quel fantomatico podere Polissena?

Dovevo andare e sarei partito all'indomani, se la fortunosa scoper­ta di una nuova pista non mi avesse indirizzato in un'altra isola dell'ar­cipelago.




CAPITOLO 2


      
Cercherò di raccontarvi con ordine: ero stato alla solita locanda del porto, sempre sotteso come una tarma impazzita, a roder notizie. Però, non avevo appreso nulla di nuovo. Allora, semiubriaco e più che mai depresso, me ne ero uscito, per girovagare un po' in quelle viuzze misere in cui il lieve odore amarognolo degli oleandri si fondeva con quello pesante esalato dagli usci schiusi. Le mangrovrie con le loro radici aeree sembravano avvincermi a quel luogo che per me non aveva risposte, quasi che colà i fili del mio destino si congiungessero nel tentativo di darmi soluzioni...
Indi mi ero seduto sul molo, quasi a perdermi in quelle stelle che iniziavano ad aprire i loro enormi occhi di luce. Ad un tratto mi si avvicinò una vecchia e questa, con quel suo accento lamentoso e guttu­rale, mi chiese dei soldi. Io, che di soldi ne avevo pochi, appena quel tanto o poco più per poter partire all'indomani, le risposi rudemente di andarsene. Ma la vecchia, borbottando qualcosa, si accuccìò per terra, accanto a me, guardandomi con degli strani occhi piccoli e lucenti, ver­dissimi. Poi mi disse con voce insinuante, piena di complicità:

"Perché non vai a trovare quello che cerchi dal reverendo David O'Connor?".

Sobbalzai, perché nel mio intimo quel nome non era nuovo! L'ac­chiappai per le spalle ossute, gridando: "Vecchia, che cosa sai?". Ella fece un ghigno con la bocca sdentata e guardandomi con quei suoi occhi verdi e mobilissimi in cui ora brillava un lampo di malizia, mi tese la mano in silenzio. Capii e le rovesciai in grembo tutto quello che avevo in tasca, continuando ad urlarle: "Parla! Parla!".

Ella, raccattando frettolosamente tutti i soldi e nascondendoseli in seno, bofonchiò:

"Il pastore O'Connor abita, se non è morto, a Strong Island; lui ha sposato la figlia di Bosas...". Ciò detto con uno scatto impensabile data la sua vecchissima età, si dileguò nel buio della notte, per le tortuose viuzze che circondavano il porto.

La figlia di Bosas? La figlia di Bosas!... Ma, mio Dio, di quale Bosas? Del Silver, ex padrone del castelletto? Ero davvero sul limite del crollo nervoso ed ogni nuova tessera scatenava in me una tensione e un tumulto d'ansia tali che non sapevo più se ero in grado di obiettive conclusioni.

All'indomani sarei andato alla scoperta di Strong Island, per come suggeritomi, e, a costo di bussare casa per casa, avrei trovato quel pastore O'Connor.

Mi dissi di dover prendere qualcosa per dormire, almeno qualche ora, ma nello stato di inquietudine disperata, in cui ero, mi sembrava che anche il sonno fosse del tempo perso, da non dover togliere alla ricerca. Intanto nella mente mi turbinava quel nome che sapevo di aver già udito, pur non ricordando dove e quando.

Scartabellai tutti i miei taccuini. Non ne trovai nulla.

Ma verso l'alba, dopo la centesima sigaretta, mi venne un lampo.

"Sì, sì, quello era il nome del pastore misterioso che aveva telefo­nato a mia mamma per far riassumere al castelletto il giardiniere!".

Saltai in aria, eccitatissimo ed appena si fece un'ora possibile te­lefonai al sergente Parker che nei verbali di questa dannata storia doveva avere anche questo nome, avendo noi denunciato la misteriosa telefonata avvenuta a suo tempo...

Avere al telefono il commissariato di Soldlake fu cosa assai diffi­cile, ma, alla fine ebbi la comunicazione. E qui, dal sergente in persona, appresi qualcosa di ben più importante di ciò che volevo sapere, che, tra parentesi, mi fu confermato tale e quale era stato da me immaginato. Fui informato che, nel frammentre, le indagini erano continuate e che si era appreso quanto segue: Rosy, la cameriera stabile di casa Kefrai, aveva soggiornato a tempo pieno a Blackvalley, finché era vissuta la signora Theanò. Poi, era andata ad abitare a Stockwell, dalla sorella e qui aveva conosciuto il campanaro Jeremy Tigh con il quale, poi, era nata una relazione, tenuta segreta. Così la donna aveva appreso tanti retroscena di Blackvalley e storie personali del suo Jeremy.

Questi, "in passato", era stato innamoratissimo della giovane Sophia Bosas, la figlia dell'ex proprietario Bosas che ricambiava tenace­mente il suo amore; ma questo sentimento era stato assai contrastato dal padre di lei che l'aveva portata via, chissà dove.

Tutto questo mi stupì, ma relativamente, essendomi parzialmente già noto ed anche perché avevo capito che poteva esservi pur qualcosa di simile nell'odio tra i Bosas e Jeremy Tigh. Tuttavia il colpo grande mi fu dato dagli ulteriori particolari: infatti Rosy, che si era decisa a parlare, certa che l'assassino del suo uomo fosse uno dei Bosas, aveva rivelato che la ragazza, Sophia, non era figlia di Silver, per come tutti avevano creduto a Stockwell, bensì di Hander Bosas! Ella era stata affidata allo zio, Silver, poiché il padre era stato parecchie volte in galera non solo per contrabbando e furto, ma anche per tentato omicidio.

La cameriera aveva dichiarato inoltre di aver saputo da Jeremy che tra lui ed i fratelli Bosas vi erano fortissimi contrasti per dei diamanti di poco chiara provenienza non consegnati dal Tigh ai Bosas; anzi Hander minacciava continuamente di morte Jeremy e questi lo odiava feroce­mente per aver anch'egli impedito di realizzare il suo sogno d'amore con la giovane Sophia.

Perciò la polizia, sicura ormai delle ragioni che avevano causato la morte del Tigh, ucciso sia per il losco traffico di preziosi, sia per l'im­perdonabile amore, aveva spiccato un ordine di cattura nei riguardi di Silver Bosas, con la facilona certezza che fosse questi e non il fratello Hander, già riconosciuto cadavere dal notaio Ferguson, il folle mostro di Blackvalley che aveva rapito Selenya e ucciso il campanaro.

Tutto ciò mi fu comunicato dal sergente Parker che pareva assai soddisfatto e sicuro che presto o tardi si sarebbe riusciti ad acciuffare l'assassino ed allora si sarebbe saputo che fine avesse fatto Selenya.

Questa nuova svolta degli eventi ancora una volta mi aveva lascia­to confuso e frastornato. Comunque il fatto dì sapere adesso quale fosse la vera identità del miserabile carceriere di Selenya, poco o nulla dava al mio dolore ed a quella mia lacerante smania di ricerca. Inoltre, devo dire che, in fondo al cuore, presagivo che non solo la verità non fosse proprio tale, ma che, anzi, altre inimmaginabili tessere sì sarebbero ag­giunte a quell'orribile mosaico di dolore e di morte che sembrava voler incrudelire sulla mia vita.

Mi trovavo disperatamente schiacciato da questa storia: le mie risorse vacillavano ed io stesso mi sentivo come risucchiato in un infido cunicolo, senza spiragli di soluzioni. In più, ora, ero solo, infelicemente solo ed ormai con pochissimi mezzi. La morte del notaio Ferguson, poi, era stato un colpo che veramente mi aveva messo alle corde... Con lui, oltre che aver perso una persona cara (dopo la morte di mia mamma, il vuoto d'affetto della mia anima era già enorme) avevo perso anche l'uni­co compagno, amico, confidente, in questa lotta contro l'ignoto. Per questo a me ora sembrava di essere infinitamente vecchio e stanco e troppo perdutamente chiuso. Ultima sistole, nel mio cuore, qual estrema fiammella, era il mio amore appassionato per Selenya...

Così, come un cavallo al galoppo, sforzato dalla frusta della dispe­razione, partii alla ricerca del pastore O'Connor.

La ricerca, in verità, non fu difficile, poiché il pastore era cono­sciuto nelle varie isole dell'arcipelago. Però, non abitava nella fertile Strong Island, bensì ad Hamilton, capoluogo dell'isola grande, Bermuda, ove aveva sede la comunità evangelica.

Quindi, mi catapultai da lui!...

In un dedalo di stradine strette del quartiere più povero, ravvivato solamente dal luccichio degli occhi scuri di quei troppi bimbi e dai fiori turchini della bermudiana, era la casa de! pastore.

Egli abitava in un appartamentino assai modesto, sopra la chiesetta, a cui si accedeva dall'interno, da una specie di sagrestia e luogo di ritrovo di un mucchio di ragazzetti che formicolavano, confu­sionari e ciarlieri, attorno ad un flipper. Mi arrampicai su per la scaletta di legno e suonai alla porta, tesissimo, ma non sapendo chiaramente come impostare le domande e prevenuto sulla persona e sullo svolgimen­to del colloquio.

Mi venne ad aprire egli stesso e, in verità, fu assai stupito della mia visita, poiché in quel luogo non veniva mai alcun estraneo, da così lontano, a trovarlo. Tuttavia fu assai gentile e mi ricevette subito nel suo piccolo studio, uno stanzino stipato da mobiletti e casse e soprattutto da cumuli di libri. Con cortesia mi scostò dal tavolo una sedia e m'invitò a sedere.

Era un uomo, credo, sulla cinquantina scarsa, o, forse, parecchio meno, ma assai magro ed invecchiato: certamente non era di gran buona salute, dato il pallore del viso, segnato da rughe. Solo gli occhi celesti, sereni ed infantili, sembravano giovani e spiccavano in contrasto con quel viso e con le tempie, dove i pochi capelli chiari erano già un po' ingrigiti.

Per un attimo ci guardammo in silenzio, poi egli, gentilmente, mi chiese: "In cosa posso esserle utile?".

Immaginavo che il dialogo sarebbe stato tempestoso ed ero già giunto prevenuto, poiché ricordavo il raggiro della telefonata a mia madre. Ma l'aspetto assai semplice e dimesso del pastore mi aveva un po' disarmato. Infatti, contrariamente a quanto prevedessi, mi confer­mò subito di aver sposato la giovane Sophia Bosas, figlia di Hander, ma sempre vissuta, prima del matrimonio, con lo zio Silver, e di essere rimasto vedovo da poco meno di sei mesi.

Egli l'aveva amata teneramente, sentendola assai indifesa e soffe­rente. Infatti, ella, tanto più giovane di lui, era profondamente infelice, poiché era a conoscenza che il padre era un pessimo individuo che en­trava ed usciva dal carcere; ed anche lo zio con cui lei aveva abitato da subito dopo la primissima infanzia, era persona dedita a loschi traffici e, non meno del fratello, collerico e violento. Infatti, quando ella si era innamorata di Jeremy Tigh, sia dallo zio che dal padre aveva subito atroci scenate e percosse. La poverina serbava di quell'amore un ricordo dolcissimo. "Aveva accettato di sposarmi, pur confessandomi di amare ancora Jeremy, solo perché terrorizzata dalle minacce del padre e dello zio di nuove bastonature e dal loro feroce proponimento di uccidere il giovane ebreo... Io, nulla pretendendo, le avevo promesso un'amicizia tenera e discreta, conscio che quella povera creatura avesse bisogno di tanto affetto e di calore umano. Mi rendevo conto anche delle sue con­dizioni di salute, assai preoccupanti, che richiedevano tanta calma e te­nere cure. Sophia, infatti, aveva un fortissimo esaurimento nervoso, con crisi depressive di pianto e di grande sconforto. Ella aveva assai spesso la mente sconvolta da incubi ed atroci timori di essere sottoposta a vio­lenze di ogni tipo e che il suo Jeremy potesse essere ucciso...".

"...Cosa che, poi, tragicamente, è avvenuta!...". Conclusi io, in­formandone il pastore che nulla sapeva di quest'ultima drammatica vi­cenda.

Ciò udito, con dolente stupore ed esecrazione, il pastore tacque ed il suo viso, già così spento ed invecchiato, si era appassito maggiormen­te, come consumato da una pena interiore. Anch'io, che mai più avrei immaginato una storia simile, tacevo. Allora, il pastore si alzò e, facen­domi un gesto vago di attesa, andò di là. Indi, ritornò velocemente, tenendo tra le mani un portafotografie, confezionato artigianalmente, con grande cura. Egli, pallidissimo e in preda ad una intensa emozione, lo serrava, indeciso a mostrarmelo... Poi lo adagiò con la massima genti­lezza sul tavolo, col volto verso il basso, come se volesse così conservare l'intimità dell'immagine...

Dopo un lungo attimo di silenzio, con la voce percorsa da un lieve tremito, continuò, ma sembrava che, più che parlarne con me, egli desse seguito ad un suo monologo interiore:

"Nei primi mesi di matrimonio, la mia piccola Sophy, così io la chiamavo, parve riprendersi, anche perché sia lo zio che il padre erano lontani. Qui, la vita in comunità, le necessità della chiesa, l'assistenza a tanti vecchi e bambini, la occupavano gradevolmente. Addirittura mi illudevo che stesse per guarire...

Poi, e non fosse mai arrivata quella lettera! Il padre le scrisse che ritornava per stabilirsi definitivamente qui. Per Sophia fu un crollo! Si tormentava in continue crisi di pianto ed anche la notte si svegliava, terrorizzata che il padre la picchiasse come aveva fatto spesso. A nulla, ahimè, servirono le mie promesse di proteggerla e d'impedire che le venisse fatto del male. Per questo, sì, per questo... la mia adorata Sophia, due giorni prima della data in cui doveva arrivare Hander Bosas... Lì, dal ponte rosso... Ed io... non ho capito, ...non ho saputo impedire...". La frase non fu finita. Il pastore, prendendosi il viso tra le mani, emise un suono strozzato che era insieme un singhiozzo e un gemito. Indi, con voce impastata di pianto, ripeteva: "Sophia, come hai potuto...". Anch'io ero commosso e dentro di me pensavo con uno spasimo di rabbia e di angoscia a quante persone avevano arrecato dolore quei maledetti Bosas. Riuscii solo a dirgli, con tono comprensivo e partecipe: "Signor pasto­re...". Egli fece di sì con la testa e lentamente sussurrando: "Era così bella..." mi porse il ritratto. Guardai!...

A me il cuore sembrò spaccarsi e per un attimo gli occhi mi si velarono... Quella donna giovane e malinconica, con quella cascata di riccioli neri, rassomigliava in una maniera stupefacente a Selenya... solo, e questa era l'unica nota di differenziazione, questa Sophia aveva dei grandi occhi verdi, allucinati e fìssi che toglievano al volto quella im­pronta dolcissima di Selenya ed imprimevano all'immagine un aspetto di ipnotica fissità. Si capiva subito che la giovane era ammalata, inguaribil­mente ammalata, ma quegli occhi folli e terrorizzati che davano l'impres­sione di non vedere nulla, donavano al viso una bellezza stregata che ammaliava. Non cessavo di guardarla, spaccato dentro da un dubbio atroce che era certezza e contemporaneamente era coscienza dell'impos­sibilità delle mie supposizioni. Balbettai: "Dio, Dio mio, ma è quasi identica a Selenya, anzi, precisa tranne che negli occhi...". Il pastore si stupì e mi chiese se fossi certo di questa rassomiglianza che a lui sem­brava proprio impossibile. In quanto agli occhi verdi, così fissi e lucenti, Sophia li aveva certamente ereditati dal padre, Hander Bosas che (ed egli in maniera molto più accentuata) li possedeva, rivelando con quello sguardo roteante e torvo la sua follia crescente.

Allora, come un naufrago che già sulla soglia dell'atroce trapasso, trova una tavola e vi si attacca selvaggiamente, così il mio dolore, sigil­lato dentro da eternità di ore stressanti, si attaccò a quell'altro dolore. Con la voce rotta da quella pena che finalmente poteva manifestarsi, conscio che fra noi si andasse creando una tacita sofferta, ma sincera amicizia, iniziai a narrargli il nostro calvario, mio e della mia famiglia...

Il pastore O'Connor mi ascoltò, pallido e cupo in volto, tradendo una violenta emozione, quando gli dissi del bel corpo di Selenya crudel­mente torturato... Tremava, serrandosi le mani e continuava a dire: "Non è possibile, non è possibile!".

Per il resto, egli nulla sapeva più di quanto mi avesse narrato. Solo, quando gli dissi della telefonata in cui si faceva il suo nome, giurò di non essere stato lui... E ciò era facilmente credibile, anzi, era anche facilmente intuibile chi l'avesse fatta. Si era intanto fatto tardi ed egli, con affettuosa semplicità, mi propose di fermarmi per quella notte a dormire da lui. All'indomani avremmo parlato con un po' più di serenità e, chissà, che l'Eterno non ci avesse concesso un qualche lume. Accettai, sfinito, ma non volli cenare: avevo nello stomaco un nodo di veleno e di rimpianti... Inoltre mi martellava l'atroce sospetto che Selenya, vista l'esterefacente somiglianza con la moglie del pastore, non fosse figlia del notaio bensì, per qualche brutale stupro all'indifesa Theanò, del Bosas.

Solo così il mio cervello, dilaniato da continui turbinii di assillanti ipotesi, si spiegava l'assurda rassomiglianza delle due giovani!

Ma Selenya rassomigliava tanto alla madre, Theanò, e quindi c'era per caso anche un rapporto di questa con Sophia?

- No, no!... Sto vaneggiando! -

.. .Per fortuna quella notte riuscii a dormire un sonno di piombo.

 






CAPITOLO 3

 


        All'indomani mattina il pastore mi costrinse a bere del tè con del latte. E, con fare paterno, ma severo, mi disse: "Ora si faccia la doccia e poi andremo in chiesa, chiederemo a Lui aiuto e consiglio...".

Così facemmo e io in chiesa mi inginocchiai, e non lo facevo da secoli, e su quel legno misi il mio cuore e tutte le mie lacrime...

Poi, nello studio del pastore, con un po' più di calma, discutemmo ed appresi qualcosa d'importantissimo e di chiarificatore per il resto delle indagini...

Quell'uomo così logorato da quella sua pena interiore che si sfor­zava di non far pesare sugli altri, anzi, proprio perché provato dalla morsa del dolore, cercava in tutti i modi di lenire quello altrui; mi con­fortava. Dopo la morte di mia madre e quella del notaio Ferguson, egli era la prima persona alla quale l'anima mia si aprisse senza quell'ansia di diffidenza e quel travaglio angoscioso per il mistero incombente.

Così, da lui appresi che il giorno dopo la morte di sua moglie non era venuto nessuno dei fratelli Bosas, contrariamente a quanto preannun­ciato. Sicché, egli che non aveva di nessuno dei due un recapito certo (già da tempo Hander Bosas gli aveva fatto sapere di non essere più rintracciabile al castelletto dei Kefrai, a Blackvalley), aveva officiato le esequie senza la presenza di alcun parente della moglie. Solo dopo un po' di tempo era comparso Hander Bosas, più pazzo che mai, ed, appresa la notizia della tragica morte della figlia, era diventato una belva umana, minacciando di uccidere tutti per farla pagare. Anche su di luì si era lanciato, urlando parole incomprensibili e schiumando come una fetida bestia velenosa, in preda ad un violentissimo attacco di follia. Poi, ad un tratto, si era fermato, scoppiando in un agghiacciante demente risata.

Delirando minacce di orribili torture, egli aveva giurato che avrebbe pensato - dopo - a lui. Disse: "Intanto ho già sistemato con gentilezza quella carogna miserabile di mio fratello Silver che si è fatto i soldi sul mio sangue. Sistemato definitivamente, quel culo di merda!

Ma, meglio di tutti, penserò all'ebreo, ab, ah!...".

E ridendo con quella sua allucinante ghignata satanica aveva sillabato: "che spasso, huuh! Bolleva, il signorino, eccome!

L'ebreo innamorato dovrà ben pagare, con lacrime di sangue, la morte di Sophia... Ha ammazzato Sophia? Benissimo! A lui piace la musica ed io gliela farò sentire fino all'ultimo fiato, a quel verme farò io un servizio!...".

Il pastore ricordava con esattezza queste oscure parole che conte­nevano orribili minacce, in maniera indelebile. Allora, pur essendo an­ch'egli terrorizzato, aveva tentato di dirgli qualcosa per calmarlo, pen­sando che tutto gli venisse dal gran dolore della morte dell'infelice Sophia, ma il vecchio, scatenato nella sua furia demenziale, gli aveva dato uno schiaffo e poi, sempre ridendo in quell'atroce suo modo, se ne era andato, ripetendo, tra bestemmie e oscenità; la frase.

"Vincerò, perché io sono il sole che vince! E vi schiaccerò, topi schifosi!...".

Da quanto dettomi, alcuni di quei funesti avvenimenti caduti come un uragano sulla mia vita erano ormai più che chiari: era stato, a parer mio, Hander Bosas ad uccidere il fratello Silver in seguito rinvenuto cadavere sulla sponda del Black River, presso il gigantesco cipresso. La confusione d'identità tra i due fratelli era stata, poi, assai facile, poiché i due si rassomigliavano in maniera enorme, anche se il Silver, che era il fratello più giovane, aveva un aspetto meno esagitato e truculento del fratello maggiore e si presentava in maniera un po' più fine. Per questo lo sbaglio del notaio Ferguson che aveva effettuato il riconoscimento del cadavere, era stato quasi consequenziale, data la fortissima rassomiglian­za dei due ed il fatto che il riconoscimento era avvenuto alcuni giorni dopo, quando il corpo era già in decomposizione. Oltre a ciò, ormai mi rendevo conto che il mostro da noi invano cercato era lui e lui solo, Hander Bosas, lui l'assassino di leremy Tigh, lui, lui, maledetto, il carceriere e il violentatore di Selenya... E chissà quanti altri misfatti sconosciuti e non imputabili con certezza... Chissà se la morte dei miei zii, l'una causata apparentemente dal fortuito incidente della caduta e l'altra da un improvviso quanto inspiegabile arresto cardiaco, non fossero riferibili a quel demonio del crimine? E il camionista pirata che aveva ucciso il notaio Nick Ferguson, chissà che volto aveva? Chissà se vi era un mandante o un esecutore in proprio? Forse anche su quel mistero era l'ombra maledetta del giardiniere! Ed ancora, forse, poteva esser entrato nel tentativo di uccidere anche me, di cui evidentemente aveva intuito l'odio nei suoi confronti... Tuttavia, le rivelazioni del pastore O'Connor, pur svelando parte della verità, nulla di nuovo e risolutivo davano alla mia disperata ricerca di Selenya.

Rimaneva, in aggravante, del tutto inspiegabile per entrambi, la vivissima rassomiglianza tra Sophia Bosas e Selenya. Questo fuori pro­gramma, tanto accentuato da escluderne la casualità, ci sconvolgeva ed entrambi percepivamo che, pur sconosciuto ed inimmaginabile, un qual­che legame vi fosse e che in ciò potesse esservi una via di soluzione all'atroce vicenda.

Facemmo le più arzigogolate supposizioni, ma non si approdava a nulla.

Ciò che stupiva maggiormente, era l'origine così tanto diversa delle due giovani: l'una, Selenya, figlia di una greca, Theanò Kiryakopulos e del notaio Ferguson (presumibilmente?), l'altra, Sophia, figlia del Bosas e di una donna, probabilmente di quelle isole, di cui nulla si sapeva...

Ciò mi tormentava, ma, poiché pensavo di non aver più nulla di interessante da scoprire in quel luogo, decisi di partire.

La cosa dispiaceva ad entrambi, perché tra di noi si era creata una sorta di dolente alleanza. Tuttavia il pastore, consapevole della necessità di proseguire le ricerche pur disperate in tutti i posti, in tutti i modi, mi consigliava di andare in Grecia alla ricerca di quella località misteriosa ove il notaio, perché probabilmente aveva scoperto qualcosa, era in pro­cinto di andare quando era avvenuta la terribile "disgrazia". Io, invece, volevo ritornare a Blackvalley, arso dalla speranza che colà potesse es­servi Selenya.

Ma avvenne qualcosa che cambiò tutti i programmi...

La sera prima della mia partenza, il pastore si mise a rassettare tutti gli indumenti della sua adorata moglie scomparsa. Non lo aveva fatto prima, poiché la cosa gli procurava grandissima pena; diceva che ora la mia presenza gli dava un po' di forza... Così, vide una borsetta e l'aprì teneramente, con mani tremanti: dentro vi erano un fazzolettino con l'ini­ziale S che gli aveva regalato lui, un pettinino, una matita e...

La fodera era scucita, anzi, quasi strappata e poi ricucita con dei punti lunghi, dati più che altro per impedire che qualcuno frugasse den­tro. Lo capimmo poi! Il pastore stava per richiuderla, mostrandomela coti le lacrime agli occhi. Mormorò, quasi fra sé: "Era come una bambina...".

Io, non so perché, gli feci cenno di darmela ed egli, un poco stupito, me la passò. Poiché non era stata richiusa, nel prenderla, mi si aprì del tutto e a me capitò dì toccare là dove la fodera era rotta. Avvertii, così, che dietro la fodera, c'era della carta. Aggrottando la fronte, escla­mai: "Ma qui c'è qualcosa!". Il pastore, dubbioso, scucì i punti e, piano piano, quasi temendo di profanare una venerata intimità, tirò fuori quello che era occultato tra la pelle e l'interno della fodera stessa.

Pareva una lettera, assai sgualcita e logora, costituita da due fogli. Purtroppo mancava l'inizio e quindi non si poteva sapere quanto fosse effettivamente lunga. Il pastore lesse a voce alta: "Signora Sophia O'Connor Bosas".

Le mani stringevano, tremanti, quella specie di busta rotta di cui esisteva solo parte. Gli occhi, sempre così candidi ed infantili, erano appannati di lacrime, ricacciate dentro... Esitò un poco prima di conti­nuare a leggere ciò che vi era scritto. Si vedeva che era in lotta con sé stesso, temendo di violare un segreto di chi non era più. Si raccolse in una breve preghiera, ìndi sussurrò a bassissima voce: "Posso?..." E poi:

"Perdona, Sophia, ma cerchiamo notizie ovunque...".

Lo guardai con gratitudine ed egli, dopo una rapida scorsa alla firma, riprese mestamente, assestandosi nervosamente gli occhiali:

"È di Jeremy Tigh... si firma: Jeremy che non cesserà d'amarti...".

Lo vidi indeciso, quasi sul punto di sospendere la lettura che in­tanto faceva qua e là con gli occhi. Poi, ad un tratto, aggrottò le soprac­ciglia ed, alterato, mi si avvicinò, tendendomi i fogli. Lessi ansiosamen­te: "...A me di quei maledetti gioielli non importa più nulla. Quei brillanti sono solo morte e sangue. Ho giurato in chiesa alla signora Theanò K. K. che li avrei portati in Grecia, a sua madre. Lì, dove i Bosas non sanno sia, andremo noi. Però, sono preoccupato che il vecchio maledetto possa avere dei dubbi. Là andremo, cara. Ci rifugeremo dove nessuno potrà trovarci e finalmente saremo felici. Strappa questa lettera e non dire mai niente a nessuno. Non ti fidare di nessuno. Pure ii più piccolo indizio può svelare il segreto. Anche con tuo marito non dir mai nulla di nulla, neanche se ti chiede di tua zia: di' che non sai niente e che credi sia morta. Attenta che non ti tradisca la rassomiglianza. E davvero fortissima ed io, che pure so la storia, quando ho visto la signora e la zìa ho avuto un tuffo al cuore. Sophia cara, ho chiuso gli occhi e per un attimo ho visto te. Questa cosa mi terrorizza, poiché mi sembra impossibile che quei due maledetti, scusami, cara, se parlo così di tuo padre e di tuo zio, non notino e scoprano la verità. Anche per questo la signora T. era spaventatissima e diceva che, se non riusciva a fuggire, il giardiniere l'avrebbe uccisa. Diceva anche che il marito che sa tutto, l'aiuta e non parla. Ma poi è morta, dopo una settimana da quella volta che è venuta in chiesa. Sophia mia carissima, non voglio dirti altro che aumenti la tua disperazione. Curati, perché so che stai tanto male. Ma, vedrai, che il mio amore ti guarirà e se nessuno saprà, saremo felici".

E qui era la firma, con sotto la seguente nota: "Ricordati di tagliar­ti i capelli, meglio cortissimi e se puoi, fatteli tingere uguali a chi tu sai…Con tanto affetto ti abbraccio, ciao".

Io e il pastore eravamo muti e sconvolti. Ma cosa significava in
effetti quella lettera? Eravamo in un circolo vizioso, proprio alla soglia della verità, ma, ahimè, la porta restava ancora chiusa a chiave. Il pastore, soprappensiero, ricordando, disse, con voce rauca:
"Sì, aveva dei meravigliosi riccioli neri... Eppure, mesi fa, si osti­
nò a volerli tagliare cortissimi e a tingerli rossi, anche se prima ci teneva tanto e se li pettinava a lungo davanti allo specchio... Ora capisco il perché! Ma non riesco a comprendere chi fossero la zia e la signora. La zia di Sophia? Ma come poteva conoscere il Tigh? E di quale rassomi­glianza parla? Certo proprio per questo doveva tagliarsi e tingersi i ca­pelli: ora ciò mi è chiaro!... Piangeva tutto il giorno e, terrorizzata, mi diceva: "Malgrado questo, la riconoscerà e capirà... Se capirà, ci ammaz

 


 

zerà tutti". - La? - Non ho mai capito cosa volesse dire ed anche adesso, mio Dio, nulla comprendo! So solamente che, malata com'era, nella sua mente sconvolta, temeva che quei meravigliosi capelli potessero far ca­pire chissà cosa e che da ciò ne sarebbe venuto a lei e ad altri, e non immagino a chi, qualcosa di terribile. Quindi, per darle un poco di tran­quillità, pur a malincuore, le permisi di tagliarseli e tingerseli. Il risultato estetico fu pessimo. Ma io l'amavo lo stesso! Certamente, il suo visino, già tanto pallido e sofferente, precocemente invecchiato, risultava, così scarno e spoglio, ormai diverso, sotto quel caschetto ramato. Poi, in quella disadorna magrezza, quegli occhi, così verdi ed allucinati, sempre carichi di ombre cupe, dolenti e ossessive, spiccavano con una luce stra­na che la caratterizzava assai differente dalla creatura tìmida e dolcissima che avevo conosciuto. Ma lei non sembrava dolersi, anzi, quasi ne gioiva; ed ora ben so il perché...

Un giorno mi disse, guardandosi curiosamente nello specchio:

"Adesso che non ho più tutti quei capelli neri, sembro un'altra e, vedrai, ci salveremo..." allora, improvvisamente, colmandosi quei suoi occhi stranissimi di un dolore intenso, scoppiò a piangere e tra i sin­ghiozzi mi supplicava di volerle ancora bene, anche se era tanto cambiata e brutta e di salvarla...

Il pastore si interruppe con la voce strozzata e serrò le labbra violentemente. Cadde un lungo silenzio, poi, egli, alzando gli occhi al Crocifisso, mormorò tra sé:

"Tu sai se e come avrei voluto salvarla, pure a prezzo della mìa vita... Non ho saputo, non ho potuto". Ciò detto, consumato da una pena mai sopita, si chiuse il viso tra le mani.

Commosso, con la testa in fiamme, e in preda alla più grande confusione tacevo, in rispetto del suo gran dolore. Ma cosa, poi, potevo dire? Certamente adesso era relativamente un po' più chiaro il perché sua moglie si fosse tagliata i capelli! Ma il nostro tormento era a chi ella doveva o non doveva rassomigliare. Nel mio cuore c'era una sola risposta: a Selenya, sicuramente! Ma perché? E perché mai farsi i capelli rossi e corti?

Allora, quella rassomiglianza così sbalorditiva non era casuale! Però, d'altra parte cosa mai potevano avere in comune quelle due crea­ture così tanto distanti tra loro? Una sola cosa orrenda: la paternità!...

E quella zia di cui si parlava nella lettera di Jeremy chi era? Dove stava?... Mi accorsi di aver formulato quest'ultima domanda a mezza voce e il pastore mi rispose: "Non so, non so! Ella, rarissimamente, parlava di questa zia, quasi che provasse contemporaneamente un senti­mento di odio e di amore. Ma non sono mai riuscito a sapere il perché, so solo che un qualche ricordo le causava estrema sofferenza ed agitazio­ne. Una volta che Sophia aveva tanta febbre, in delirio chiamava la mamma, lo rammento bene. Assai sconvolta si lamentava di essere stata mandata via, perché la zia, forse, era venuta e non so bene dove o quando... sragionava di sconclusionate parentele, asserendo che la mam­ma era la zia e per questo era stata presa dallo zio... Queste assurdità mi sono rimaste fisse in mente, perché la poverina le ripeteva ossessivamen­te, come se fossero qualcosa più che un incubo di febbre. Quando poi guarì, glielo chiesi, ma la mia domanda servì solamente a farla piangere tanto. Perciò non ho mai più indagato. Né so altro di questa misteriosa parente, della quale mai mi parlarono i fratelli Bosas, quasi che fosse un argomento intoccabile. D'altra parte, vista la salute così debole della mia povera Sophia, evitavo qualsiasi argomento che capivo le facesse male e che la lasciasse sconvolta. Per quel pochissimo che ero riuscito a captare qua e là, credo che ella abbia avuto una primissima infanzia assai serena, che però, chissà mai perché, tentava di scordare, quasi rifiutandola. Può darsi che poi questa fu interrotta da un qualche avvenimento negativo, forse la sopraggiunta morte della madre, di cui io non ho mai saputo la data. In verità, neanche dai documenti di matrimonio ho appreso nulla sui genitori.

Fu affidata, poi, allo zio Silver, poiché il padre entrava ed usciva dal carcere. Deve avere avuto un forte trauma e dei giorni infelicissimi che hanno infranto del tutto il suo già debole sistema nervoso. Ma il colpo definitivo le è venuto dalla fine della sua dolce storia con quel giovane, Jeremy Tigh. Sicché, quando io la conobbi era veramente una povera bestiola terrorizzata e distrutta. Per questo l'ho amata tanto: era come un mìsero uccellino ferito... Lei intuiva quanto le volessi bene e si sentiva protetta. Per questo, pur non amandomi, fu felice di sposarmi e voleva che le stessi sempre vicino... Mi domandava perché le volessi bene e se era saldo il mio amore... Quasi che temesse di perdere in ogni istante quel calore di tenerezza forse mai avuto, che le serviva per vivere...".

Il pastore parlava con voce strozzata, così intensamente commosso che assai di sovente s'interrompeva, ingoiando le lacrime represse.

Anch'io lo ascoltavo con profonda tristezza, provando per quel­l'infelice creatura che più non era e che non avevo mai conosciuto, una pietosa fraterna commozione, un'attenzione, un sentimento, confuso e inspiegabile, che me l'accostava a Selenya.

Il pastore, alzatosi, camminava su e giù e si serrava nervosamente le mani, lamentandosi, per la superficialità delle sue attenzioni:

"Se avessi avuto più tempo, un po' più di tempo... sì, sarei riuscito a guarirla, perché di me si fidava... Oh, sì, il mio amore l'avrebbe guarita: vicina a me non piangeva mai e non aveva più paura... Ma poi, quando seppe che forse veniva lo zio e sicuramente il padre, lui sì ve­ramente folle e maledetto, (come l'odiava, Sophia, solo che ne sentisse il nome!) urlò che non voleva vederlo. In terribili crisi di pianto, lo malediva, dicendo che era terrorizzata che la portasse via, che le facesse del male... Se non avessi saputo le gravi condizioni di esaurimento in cui ella si trovava che le facevano vedere tutto in chiave così parossistica-mente drammatica, avrei pensato che quell'uomo le avesse effettivamen­te fatto qualcosa di male... Dio mi perdoni di questo pensiero che mi si affacciava ogni volta che la vedevo cadere in simili accessi di angoscia e di repulsa. Certo che lei lo odiava con tutte le sue forze... diceva, diceva, livida d'odio e sconvolta dal terrore: "È un mostro dannato!

Maledetto, maledetto... Come si può fare una cosa così infa­me?...".

"Proprio così diceva e quelle parole mi trafiggevano l'anima nel dubbio atroce che quell'uomo le avesse usato violenza. O se no, cosa mai altro potevano voler dire?".

Io, come lui, brancolavo nel buio e proprio nulla sapevo risponder­gli. Mi sentivo schiacciato da questo orribile crescendo di situazioni nuove, di nuovi particolari che, però, nulla davano alla verità. Erano solamente orribili colpi di frusta sulla mia mente frastornata, dannazio­ne... Ora ci mancava anche quella, per noi incomprensibile, lettera di Jeremy Tigh! Non sapevo più cosa pensare: come chi sta per precipitare in un abisso e si aggrappa disperatamente all'ultimo unico appiglio, pur se leggerissimo, così io mi aggrappavo a quella unica carta: l'incompren­sibile, inspiegabile rassomiglianza di Selenya a Sophia e di Sophia a?... "A chi, a chi, mio Dio! Forse a Theanò? E come era possibile?".

Allora, in quella stanzetta squallida, dalla finestra che guardava il mare, al mio cuore senza conforto come il suo, apparivano due fragili figure di donne, assai simili e assai diverse insieme, come due fiori stregati, nati sullo stesso ramo, uguali di colore e di profumo, eppure così tanto diversi che certamente l'uno non si poteva confondere con l'altro. Il mio cervello era un torchio impazzito che roteava immagini su imma­gini e rivedevo il quadro e il viso di Theanò e quello di Selenya e ora, per chissà quale sortilegio maledetto della mia mente sul limite del tra­collo, ora anche quello di Sophia... Era come se una divinità trivalente avesse rubato a quelle tre creature il medesimo calco ed avesse dato loro un inspiegabile filtro d'identità...

Sentivo con terrore che delle nebbie confuse si addensavano sulla mia intelligenza esaurita e stremata. Quelle tre donne costituivano il "Mistero dei tre fiori" di cui mi aveva parlato Selenya? Domanda senza risposta!

Ossessionato, uscii da quella casa e mi recai alla locanda a buttar giù, bicchiere dietro bicchiere, quell'allucinante persecuzione dei tre volti, dei tre fiori, dell'isola di Three Flowers (tre fiori), nel triangolo maledetto delle Bermuda, con, sullo sfondo, misteriosa, senza viso, senza identità, quella Selenya Bosas, la zia che si chiamava assurdamente nella medesima maniera della mia piccola Selenya...

Più tardi, ubriaco fradicio, vagabondai nelle gramaglie della notte senza stelle. Sulla banchina mi sedetti su una bitta e, nella mia mente alterata dai fiumi dell'alcool, la risata di Bosas mi ordinava:

"Buttati!".

Sì, volevo morire, per non pensare, per non soffrire, perché sapevo che mai avrei smesso di cercar Selenya!

E, quella notte, la morte mi fu davvero accanto. Se la mano del pastore O'Connor e la sua voce amica non mi avessero riportato a casa, in quell'oscurità in cui le onde eran solo putrido odore di alghe marce e puzzo di pesce scartato, l'oceano mi avrebbe serrato per sempre nel suo ventre ingordo...

 

 

CAPITOLO 4


Solo chi ha provato ciò che si avverte quando un furore, una rabbia, ti rodono spasmodicamente perché senti di essere inequivo­cabilmente ad un passo dalla verità, eppure questa, beffandoti, ti sfugge, sa in quale stato io fossi.

All'indomani mattina, dopo una nottata assai inquieta, smaltita la sbornia, le parole di quella strana lettera e quelle di Sophia, riferitemi dal pastore, mi ronzavano, straziandomi dentro. Ma invalicabilmente fra me ed il loro segreto, era quel quid d'ignoto, di nefasto che mi bloccava.

Anche il pastore O'Connor brancolava, legato a quelle cose che non riusciva a spiegarsi. Addirittura, passandosi la mano tra i capelli, mi sussurrò, pallido come un cadavere, con lo sguardo fisso nel sole:

"Ho paura d'impazzire e, come un tarlo demoniaco, nel mio cer­vello s'insinua la folle speranza che Sophia non sia morta veramente... che la morta non fosse poi lei... Ma no! lo sono pazzo! L'ho vista, me l'hanno fatta vedere appena per un attimo, quando l'hanno ritrovata annegata... Dimmi, Ronny, forse... forse... Ella è fuggita con quel Jeremy Tigh per quel luogo misterioso di cui egli parla?...".

Ebbi così tanta pietà di lui che non osai contraddirlo e tacqui. In quei momenti di vero smarrimento a che sarebbe servito ricordargli che il giovane ebreo era morto, ucciso proprio da quel mostro di Bosas? Intanto, egli, come invasato, continuava: "Certo, sì, ora capisco!

Ecco perché si era tagliata i suoi meravigliosi capelli... Ma a chi doveva rassomigliare e perché? O perché, perché, mio Dio, doveva es­sere diversa?...".

Affranto, come un bambino senza più risorse, mi abbracciò e, pei un attimo, in quell'atto di dolente amicizia, la bisaccia di entrambi parve essere meno pesante... Mi disse, eccitato, quasi con un po' di speranza:

"Scriverò al Reverendo Clarence, chiederò un periodo di permesso e verrò con te".

Allora, quel - tu - che per un attimo mi riportò dinanzi il notaio Nick Ferguson, annodò definitivamente la stretta di due cuori.

Non riuscivo a raccapezzarmi per quel discorso dei gioielli che certamente erano gli stessi di cui Theanò parlava a Selenya nel biglietto, trovato dal notaio Ferguson. Questi preziosi sembravano stare nascosti nell'orlo di una misteriosa veste bianca di cui, però, il Bosas pareva essere al corrente, tanto che torturava la mia adorata, infelice Selenya, affinché ella, e non si sa come, la ritrovasse.

In verità una tunica di raso bianco era stata rinvenuta nel cassetto, chiuso a chiave, di un mobile sito nella stanzetta del sotterraneo, ma nell'orlo di questa, né in altra parte, erano stati ritrovati gioielli. Ed allora? Non restava che concludere: o l'abito ricercato non era quello, o Theanò, accortasi di essere stata scoperta, aveva preferito consegnare questi gioielli (posto che fossero gli stessi) al giovane campanaro Jeremy. Altrimenti, di quale altri gioielli avrebbe potuto parlare l'uomo?

Addirittura, e qui mi accorgevo di perdere la testa, da quell'oscura lettera sembrava quasi che fosse dubbia anche la morte della signora Theanò Kefrai.

Se poi la zia di Sophia era la sorella della mamma, che cosa c'entrava? C'era un punto di connessione fra quelle due storie così tanto diverse e distanti, anche territorialmente? Probabilmente il personaggio in questione era quella certa Selenya Bosas il cui nome era per me un chiodo senza soluzione. Decisi che all'indomani avrei fatto saltare tutti gli uffici delle isole Bermuda, finché non avessi trovato un qualche in­dizio più chiaro di questa donna.

Fu una ricerca logorante, perché pareva che in quei maledetti re­gistri delle forze malefiche avessero cancellato notizie facili ed ovvie.

Così, come già avevo appreso, riseppi che un certo Cristopher Bosas, proprietario di una flottiglia da pesca e poi padrone di un vapore, aveva avuto tre o quattro figli: la prima di nome Selenya e, poi, a distan­za di cinque anni, Hander, indi Silver, a distanza di due anni dal prece­dente. Del quarto figlio e della maternità, cosa davvero stranissima, nulla si sapeva, quasi che fossero sconosciuti. Tutto ciò ero riuscito a ricavare da una specie di stato di famiglia, un atto che, molti armi addietro, Cristopher Bosas aveva richiesto per l'ottenimento di una casa del comu­ne, quando egli faceva il custode. In seguito, era stato mandato via ed allora aveva fatto il pescatore, sempre con maggiore fortuna, sino a di­ventare, da padrone di barca, padrone di nave. Da quel momento era comparso sempre meno nelle isole Bermuda, finché non si era più visto.

Malgrado, quindi, avessi interrogato tantissimi vecchi del luogo, poco di più avevo appreso. Della figlia appena una traccia: una vecchia mi disse di ricordare che la ragazza, poco dopo la nascita del secondo fratello, era partita in viaggio col padre e mai più era ritornata; forse era morta! Lo strano era che mentre dei due figli ero riuscito a trovare un atto di nascita, del quarto figlio e di questa Selenya Bosas neanche l'om­bra, come se non fossero mai esistiti. Sicché, veramente con le pive nel sacco, con il pastore, con il quale ora ci si dava del tu, ed io chiamavo confidenzialmente David, si decise che era meglio che io partissi subito. Dopo una breve sosta a casa mia e a Blackvalley, sarei andato in Grecia, lì dove era stato il notaio Nick Ferguson.

Intanto il pastore, anch'egli assai turbato dagli avvenimenti e per la grande rassomiglianza delle due ragazze, appena fosse arrivata un'au­torizzazione, o meglio un sostituto, mi avrebbe raggiunto.

Quelle isole coralline, esuberanti di una sensualità dirompente nei colori, negli odori, nei sapori, che per altri erano delizioso luogo di turistico svago e ne facevan fede gli arditi grattacieli che arricchivano dell'arrogante potere dei denaro il centro di Hamilton, eran per noi ora solo un'inutile stasi di ricerca.

Io, in particolare, che la notte antecedente alla partenza, spe­ranzoso di trovare qualche spicciolo di verità, erravo ancora una volta nelle sordide viuzze della parte vecchia o per le affumicate taverne del porto, sentivo quella terra come una trappola di promesse e di inganni. In altro momento della mia vita, quando il giornalismo mi faceva da puledro per interessanti scoperte, il fascino delle Bermuda, pervase dai conturbanti misteri, di miserie ataviche, di ricchezze sfacciate, di dovizie naturali, più volte in contrasto con un'umanità travagliata, mi avrebbe avvinto ed eccitato. Ora invece, quando, truccatissime ed invitanti, delle lucciole, passionali orchidee di sesso, mi avevano fermato, io, pipistrello della notte, cieco ad ogni allettante richiamo, ero fuggito... Fra quelle reti, fra quelle barche, avrei voluto addormentare il mio cuore. Invece quel mare che sciabordava la malia di una canzone vecchia quanto il mondo, inganne­vole e beffardo, mi dava e toglieva passato e futuro, speranza ed illusione...

 

 

 

 

CAPITOLO 5


...Come un sasso che va per lo slancio della spinta iniziale, così io sull'aereo andavo, senza nozione di approccio alcuno, anzi senza più nessuna speranza o qualche direttiva interiore.

Con gli occhi chiusi la mia mente esausta cercava il cielo che sapevo essermi fisicamente attorno e in quello, come in un mare senza onde, senza abissi, avrebbe voluto annullarsi.

Nuvole lievi, con pietosa mutazione, si personificavano nei miei ricordi e mi trasportavano in un flash-back nel passato...

...Eccomi bambino, il ciuffo biondo sempre spettinato, nel festoso girotondo di risate dei miei compagni... ...Poi, puledro al college con le

sagge briglie di mio padre... Eccomi sempre con accanto quel sorriso dolce di mia madre che sapeva rendere preziosa ogni cosa ed anche il poco nelle sue mani diveniva sufficiente, anzi, tanto da offrirne agli altri...

Questo, con opere e non a parole, m'insegnava mio padre, pastore di vita che sapeva trovar sempre silenziosi semi di bene, confortando tutti con quella sua voce pacata e un po' stanca...

Ora invece la mia bisaccia ed ogni tormentata fase della mia esi­stenza erano vuote ed insieme orribilmente piene e quella smania fatta di mille rivoli d'insuccessi, di furia, di vendetta, di sbigottito dolore, mi annientava. Eppure cercavo di esigere disperatamente dal mio cervello dilaniato risposte, risposte... Quella era la partita a scacchi del mio de­stino ed io dovevo vincere. In un convulso vagabondare di pensieri avrei voluto perdere ia mia consistenza terrena, lasciando che le mie angosce si annegassero in quelle acque di cobalto dell'oceano, tanto incantate quanto infide...

In quelle isole allettanti, veri chicchi di melagrana corallina e turgide di linfe recondite e misteriose, quante bocche rosse mi avevan sorriso e nelle notti odorose ed umide invitato... Quante piccole mani sudicie, offrendo banane e cocchi, mi avevan chiesto... Quanti occhi diffidenti, fermi come pietre in quelle viuzze strette e maleodoranti, mi avevan spiato... Ma sempre quel vento carico di aromi sconosciuti, frusciando tra i palmeti aveva ambiguamente riso di me, indicando alla mia sete solo porte chiuse! E, rien ne va plus aveva mugghiato l'Oceano che di notte per me inventava zattere di bonaccia e di giorno gomene di alghe, mentre con bugiardi allettamenti di stelle marine puntava il mio niente su roulette d'acqua!... E, quasi che la natura partecipasse alla crudele beffa, quante volte guizzi di pesci ammalianti nella bizzarria dei loro inverosimili colori, mi avevan invitato a seguirli nei labirinti degli abissi...

E dormire avrei voluto, per non pensare, per non dover cercare...

Ma nelle mie orecchie il rombo dei motori cresceva a dismisura e si tramutava in quell'orrenda risata... Come un Giano bifronte, dolcissi­mo e tormentoso, il viso di Selenya e quello di Sophia dissacravano, scardinandolo, il mio equilibrio nervoso. Come poteva essere possibile che due creature nate, una negli USA, l'altra, presumibilmente nelle Bermuda, si rassomigliassero cosi tanto e in maniera così caratteristica? E poi, Selenya era il ritratto della madre che, per tragico scherno della sorte, era greca! E greci (ulteriore chiodo del supplizio) eran quei nomi, Selenya e Sophia entrambi inizianti con la S! Non poteva, non poteva essere un caso! Ed allora? A conferma (vaga ed inconcludente, ahimè) qualcosa inerente la rassomiglianza si poteva dedurre anche dalla lettera del giovane campanaro...

Sprofondavo sempre più in quel pozzo senza fondo e solo quella tremenda stanchezza mi divideva con un velo d'ombra dalla follia. Ero sconsolatamente solo e l'aver lasciato il pastore O'Connor, a cui mi ero affezionato come un bimbo indifeso che si aggrappa alla prima mano pietosa, mi gettava ancor maggiormente nelle spirali della più atroce solitudine.

Pensavo terrorizzato: - Anche con il notaio Ferguson è stato così ed egli, quasi per una fatale ritorsione del destino che voleva colpire me, era morto... Ahimè, e se fosse accaduto anche al pastore O'Connor? Se... Se!?... Spettri neri mi spiavano con enormi pupille di ghiaccio e con la gelida voce del silenzio mi sibilavano: "Colpa tua...".

Indi, il delirio dell'anima mia alitava, schernendomi: "E se Nick Ferguson... Se egli ti avesse sempre astutamente ingannato?... E se David O'Connor sapesse più di quanto dice e ti avesse ben mentito?... E se...".

Serrandomi le mani, mio malgrado, emisi un gemito roco.

La hostess che passando vicino, offriva cortesemente delle bibite, mi chiese sollecita e un poco allarmata: "Sta male? Posso far qualcosa?".

Io la guardai come oltre una nebbia e con orrore mi parve che anch'ella rassomigliasse a Selenya! - No! No... -

Chiesi ansante: "Lei di dov'è?...".

La ragazza mi guardò stupita e poi mi disse, indecisa: "Mah... di Bermuda... Perché?". Mi passai la mano sudata sugli occhi, tentando di cancellare tutti quei cerchi che mi ruotavano dinanzi e in fondo ai quali era il viso di Selenya. Adesso la fissavo, irato con me stesso. Constatavo che era una giovane donna sulla trentina o quasi con un caschetto di capelli di un mogano acceso, con un viso attento e due occhi castani intelligenti, abituati a discrete indagini. Abbozzai una smorfia di sorriso e con una voce confusa le mormorai delle scuse. Lei si allontanò con un indifferente sorriso d'occasione. Ma al mio tumulto di sensazioni, quel­l'incontro aveva dato una momentanea tranquillità. Per confortarmi, pen­savo: - Certamente è la mia mente esaltata che fa assurdi abbinamenti e vuote supposizioni. Per questo non riesco ad indirizzare proficuamente le mie indagini... -

Sentii la voce della hostess che annunciava l'arrivo...

...Si prega i signori viaggiatori... allacciare le cinture, prego...".

Mi sporsi e la vidi nuovamente e mi sembrò che avesse lo sguardo fisso verso di me. E in verità così credo fosse, poiché, forse sentendosi notata, si mosse rapidamente, andando in direzione contraria. Poi, lesta ritornò sui suoi passi. Sostando presso di me, mi chiese con un tono che mi parve troppo volutamente professionale: "Si ferma a New York o... prosegue? È un... un giornalista, vero?".

Dalla cabina di comando furon dati degli ordini ed ella si allontanò rapida, senza attender risposta.

Su me, come una tenaglia infuocata che mi strappava con il venne del sospetto anima e cervello, si riaffacciavano tortuosi interrogativi.

Poi le mai troppo sollecite lungaggini dell'aeroporto mi assorbiro­no: troppo lunghe per la mia ansia e troppo corte per i miei timori!

Con occhi cupi, carichi di sospetti, scrutavo i taxi fermi, teso persino nella scelta di quale prendere.

infine feci un cenno ad un giovane smilzo, di colore, che mastica­va della gomma. Mi parve innocuo.

Montai. Però, prima di chiudere lo sportello, gettai attorno uno sguardo furtivo, guardingo.

Ed ecco, ma non ne sono sicuro poiché la mia testa bollente alte­rava il visibile, mi sembrò di notare non distante, ferma... la hostess!

- Mi fissava?... -

.. .In una frazione d'attimo un guizzo di sole illuminò una testa dai capelli rossi...

 

 

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