Parte quinta – NEL CUNICOLO DEL TERRORE

 

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CAPITOLO 1

 


Iniziammo a scendere con la pistola in pugno, pronti a premere il grilletto, qualsiasi rumore sospetto avessimo udito.

Quella scala era pericolosissima, quanto mai sbilenca: aveva i gra­dini di una pietra viscida, tutti dissestati e tremolanti. Ad ogni passo vi era il pericolo di cascar giù e non si sapeva sino a dove, poiché la fioca luce impediva una visione che andasse oltre due o tre scalini più sotto. Quella discesa fu un martirio, poiché ci si doveva tenere alla parete con solo la mano sinistra. Da quel lato la muratura in tufo friabile, tutta irta di piccoli spuntoni che franavano improvvisamente, non permetteva al­cun sicuro appiglio. In più, ad aumentare la precarietà dell'appoggio, s'aprivano dei buchi e da uno di essi sgusciò fuori, l'addome mobilissi­mo, assottigliato nell'aculeo della coda, una specie di scorpione nerastro che, velocissimo, si perse jn un anfratto del muro.

Avevamo cercato, prima il notaio e poi io, di tener in mano la lam­padina tascabile, affinché si potesse avere un po' più di luce. Ma la ripidità e la grande difficoltà della discesa ce lo avevano impedito.

Ad un tratto il notaio incespicò e fu un vero caso che entrambi non rotolassimo sino al fondo: per fortuna in quel punto il muro presentava una provvidenziale sporgenza a cui potei appigliarmi con tutte le mie forze, fermando con il mio corpo la sua caduta... Optai allora, potendo usare una sola mano, di tener io la lampadina e il notaio, a me dietro, la pistola.

Dopo un tempo che a noi sembrò un'eternità, giù per quei gradini che per noi ad ogni attimo potevano nascondere un agguato di morte e con addosso quegli abiti fradici di pioggia che inceppavano più che mai i nostri movimenti, dandoci un tremendo malessere e un senso di freddo e di disagio, ecco che fummo in basso.

Alla luce fioca potemmo notare di essere giunti in una specie di angusto corridoio che, in salita, portava chissà dove. Sostammo un atti­mo, col fiato sospeso, cercando di raccapezzarci e di far mente locale, rispetto alla planimetria generale, verso dove e sotto cosa portasse quello stretto cunicolo sotterraneo. Stando alla lunghezza della scala appena discesa eravamo dall'interno arrivati sino al pianoterra e poi scesi oltre, nel sottosuolo.

Allora convenimmo che, forse, vista anche la pendenza della sali­ta, probabilmente si era sotto il viale dei cipressi o perlomeno in quella direzione; ciò ci era suggerito anche dal fatto che di tanto in tanto nel soffitto, tutto fortemente chiazzato da larghe macchie di muffa e umido, ora a destra ora a sinistra si aprivano come delle piccole grate che do­vevano essere immediatamente, o quasi, collegate con l'esterno: infatti giungeva da esse un fiato d'aria fredda e si sentiva in lontananza un fruscio cupo e insistente che poteva essere di pioggia. Così, guardinghi e arma in pugno, iniziammo a percorrere quel cunicolo in salita, attenti al più piccolo rumore e guardandoci, di tanto in tanto, alle spalle.

In mente mia nel frattempo rimuginavo sulla strana, assurda archi­tettura della casa che, più che un'abitazione, pareva un fortino o altra sinistra dimora. Col pensiero rivedevo l'incomprensibile disegno trovato precedentemente: chissà se quel cunicolo che congiungeva, apparente­mente, il mulino al castelletto non era quel segmento che a noi sembrava le braccia dell'immaginario fantoccio? Dopo un po' il corridoio curvava a sinistra e ciò mi confermò l'idea che stessimo seguendo sotto terra il percorso superiore del viale. Ma qui ci attendeva una sorpresa.

Su un lato si apriva una stanzetta dalle pareti piuttosto irregolari che aveva anch'essa una piccola grata da cui si poteva udire chiaramente il cadere incessante della pioggia. Nella stanza era un letto disfatto con un lenzuolino assai sporco e una lurida coperta. Anche se la grata non aveva vetro e quindi faceva passare l'aria, vi era colà un forte puzzo d'umido e lieve lieve, ma, ahimè, a noi ben noto, quel maledetto lezzo che mi ossessionava. Si vedeva chiaramente che il vano era stato abitato sin a non molto tempo prima. Per fortuna, illuminando le pareti con quella nostra pila, eravamo riusciti a trovare un interruttore e così la stanzetta rischiarata da una pallida lampadina che pendeva dal soffitto, si lasciava scrutare in tutti gli angoli. Avevamo acceso, incuranti che la luce potesse tradirci, ma era troppo importante perlustrare millimetro per millimetro...

In un canto era un vecchio comò coperto di polvere; l'aprimmo e dentro i cassetti avemmo modo di notare, ammassati alla rinfusa, degli indumenti maschili, un cappello da marinaio, una bussola spaccata e tenuta insieme da uno spago e delle vecchissime carte nautiche, tutte sgualcite ed arrotolate. Nonché, stranissimo e chissà poi con quale inten­to, c'era un pezzo sbrindellato di cuoio ammuffito e dei lunghi peli ispidi, incrostati di fango, incollati su un fondo di cartone.

Il notaio Ferguson mormorò: "Forse era roba di quel Bosas, il marinaio che qui faceva il giardiniere!". Disse queste parole, a fatica, quasi che, contemporaneamente, in lui si evolvesse un altro pensiero, inquietante...

L'ultimo cassetto, invece, era chiuso a chiave e invano tentammo di aprirlo. Non riuscendoci, ci ripromettemmo di rinviare l'apertura in altro momento, poiché allora ci straziava un solo pensiero che ci faceva da sferza: ritrovare Selenya! Speravamo che, forse, seguendo quel miste­rioso condotto sotterraneo, saremmo giunti al luogo dove ella poteva esser tenuta prigioniera. Così, tesi sino allo spasimo, riprendemmo il lungo corridoio in salita, cauti e circospetti, consci che quell'essere, forse pazzo o criminale, che inseguivamo e che certamente, al contrario di noi, conosceva benissimo il percorso, poteva in ogni attimo tenderci un ag­guato mortale o, addirittura, spararci dall'esterno, attraverso quelle strane grate.

Il silenzio, un anomalo silenzio carico di improvvisi, lievissimi scricchiolii, tonfi ovattati, subito ingoiati dal nulla, ci fasciava infido e noi in quello tentavamo di annullare il represso ansare del nostro respiro e l'avanzar cauto.

Quei muri, impregnati di umidità malsana, nell'irregolarità delle nicchie, delle protuberanze, dei gomiti, ci spiavano e chiazze di grossi scarafaggi, immobili, sembravano enormi pupille monoculari in sordido dileggio.

I minuti parevano impigliarsi in quelle blatte nere e lì sostare senza passaggio...

Ma ecco che di lì a poco il cunicolo si biforcò in due braccia, formando quasi un angolo acuto: in una direzione proseguiva in una leggera salita, nell'altra continuava a snodarsi più in rettilineo o, almeno così pareva, per il primo tratto.

Il nostro pensiero fu di dividerci e di proseguire ognuno per un condotto diverso. Ma poi la prudenza, la ossessiva, costante sensazione di essere spiati, nonché il ricordo del misterioso disegno, ove era traccia­ta una linea leggermente obliqua che univa il mulino al castelletto, ci consigliò di non separarci, poiché insieme potevamo esser meglio l'uno la guardia e la difesa dell'altro. Solo eravamo indecisi quale delle due vie seguire, coscienti che, qualunque fosse la scelta, lasciavamo a quel ma­ledetto una maggiore possibilità sia di fuga, sia di attaccarci a suo piacimento, alle spalle o frontalmente.

Dopo una breve consultazione, anche in base al tracciato del dise­gno, scegliemmo di continuare per quel condotto ascensionale che ave­vamo già iniziato, sembrandoci quello il corridoio principale...

Camminavamo in fila, sempre con la pistola in pugno, con le orecchie tese...

Mi sembrava di essere un bruco che forava le cavità del mondo, in un'assurdità di luogo e di tempo, col cuore spaccato da speranza e sgomento...

E senza tempo era quel nostro cammino, forse senza risultato, in quell'anticamera della morte in cui gli attimi avevano il peso di eternità. Inoltre, quegli indumenti bagnati che, invece di asciugarsi almeno un poco, parevano imbeversi maggiormente di tutto quell'umidore del sot­tosuolo, si erano, ormai, appiccicati sulla pelle, pesanti come il piombo e sembravano farci un sudario letale. Noi due, in quella notte d'acqua, con la nostra febbre di ricerca e di vendetta e quell'amore disperato che, anche se così diverso, ci univa, eravamo l'unica lentissima sequenza di quello scenario lugubre e insidioso.

Ma ecco che, da più in fondo, c'investì un soffio d'aria fredda e il nostro udito potè percepire distintamente il rumore incessante della pioggia. Capimmo che eravamo in prossimità di un'apertura... e infatti il corridoio, dopo un'ulteriore, leggera svolta, cessava, sboccando in un vano aperto. Sostammo col cuore in gola, ignorando cosa potesse attenderci colà.

Il notaio voleva passare per primo, ma io, con un balzo, schizzai fuori, tenendomi presso la soglia, raso muro.

Lì, la sorpresa fu davvero grande!...

Ci trovammo in un piccolo spazio aperto, tutto circondato, però, da alte mura, senza alcuna notabile apertura o finestra, così almeno ci sem­brava nell'oscurità. Malgrado il terreno fosse tutto fradicio di pioggia, ci parve d'intuire che quella fosse una piccola estensione erbosa. Ma dove eravamo? L'oscurità scombussolava il mio senso d'orientamento: non mi raccapezzavo dove in realtà io fossi, persuaso al cento per cento, salvo illusioni ottiche dell'ora e dello stress, di non aver mai visto quel posto prima, e sì che avevo ben girato interni ed esterni di quella maledetta Blackvalley!

La notte era fonda e da un cielo di pece continuava a cadere una pioggia fine, pesante e diritta che si conficcava addosso come tanti spilli.

Non vedevamo nulla; solo l'epidermide avvertiva lo spazio aperto e l'umidore di quell'acqua gelida.

Mi prese lo sconforto e, per la prima volta, quella furia d'odio mi abbandonò, lasciando posto ad un abbattimento totale. Lì cosa avremmo potuto vedere? E dove, dunque, saremmo potuti andare? Ritornare indie­tro? E allora ciò voleva dire la sconfitta più totale, senza considerare l'enorme pericolo, poiché, se l'uomo era occultato nel buio, gli sarebbe stato facilissimo spararci alle spalle, tanto più che eravamo un po' illu­minati!...

Con la schiena contro la parete, incollati, quasi, su quel muro ostile, in un estremo tentativo di difesa, tacevamo, desolati, indecisi sul cosa fare. Ad un tratto, il notaio bisbigliò: "Proviamo a camminare raso muro, chissà... data la totale oscurità, siamo, in un certo qual modo, in parità, non lo vediamo, ma neanche lui ci vede!..," e s'interruppe, poi­ché, forse, anch'egli, nel suo scoramento, non sapeva ormai su cosa puntare, né se la sua scelta fosse la migliore.

Così facemmo, ma io sentivo che le forze, forse più quelle morali che fìsiche, mi stavano abbandonando. Dove andavamo? Non era quello un vero e proprio suicidio o, nella migliore delle ipotesi, un brancolare nel buio, inutile e assolutamente privo di quel risultato che inseguivamo con tanta disperata caparbietà?

Di scatto, ormai tanto esausto e snervato da ignorare qualsiasi prudenza, tirai fuori dalla tasca la lampadina, cercando d'illuminare tut-t'attorno, pur in un breve raggio.

Si vedeva appena, per come avevamo già intuito, un altro muraglione di forma quasi circolare: forse recingeva una specie di strana piccola radura erbosa a cielo aperto che sembrava non aver altro sbocco che quello da cui eravamo giunti.

Il notaio sostava interdetto ed io impulsivamente feci qualche passo avanti. Allora, la mia fioca luce illuminò un qualcosa che sembrava affiorare fra l'erba, forse rimossa da poco. Mi chinai e vidi che il terreno era stato scavato e presentava un certo avvallamento. Lì, tra i sassi, nella terra bagnata con qualche ciuffo d'erba o pianta selvatica, era una specie di strano contenitore, ormai tutto infradicito dalla pioggia.

Probabilmente, se non mi fossi trovato in quelle circostanze par­ticolari di spasmodica emotività, non lo avrei considerato un qualcosa d'interessante, ma allora che mi sentivo affogare in quel nulla di reale e in quel tantissimo di sospetti, di ombre e solo ombre, mi sembrò un indizio che poteva essere interessante. Mi chinai e, alzato il cartone sfatto che evidentemente serviva come rudimentale copertura, vidi inserito di punta nel terreno un qualcosa. Avidamente lo tirai su e con mia infinita sorpresa potei constatare che si trattava di uno strano scrigno, almeno così mi parve. Intanto il notaio mi era giunto accanto ed anch'egli, curvo sull'oggetto, lo fissava, attentissimamente. Poi, con voce tremante, lo udii sussurrare: "Ma è lo scrignetto..., una minuscola bara, in cui Re-ginald mi disse di voler conservare le ceneri di Theanò!".

Sussultai e con la lampadina tentai d'illuminare meglio quel con­tenitore ligneo di forma quasi trapezoidale. Il notaio me lo tolse di mano e con cura religiosa tentò di aprirlo. Infatti il coperchio si alzò facilmen­te, essendo solamente poggiato, mentre avrebbe dovuto essere sigillato, per come dimostrava la levetta metallica e la piastrina, inizialmente sta­gnate assieme e poi dissaldate.

Dentro non vi era nulla, o meglio, forse a guardar bene, vi era stato un piccolo mazzetto di fiori, ora completamente appassiti, di cui era rimasta un po' di polvere e qualche stelo ormai del tutto seccato...

Con mani tremanti, il notaio alzò lo scrignetto all'altezza delle

labbra e lo baciò lievemente, profondamente commosso. Poi si chinò per ripoggiarlo per terra, forse, avrebbe voluto sotterrarlo, quando... Alta, terribile come un latrato e tagliente come una lama, dall'alto, quasi sopra la nostra testa, ci trafisse il gorgoglio delirante di quella risata. Era una frustata di scherno e di folle compiacimento che spaccò il nostro cervello e il nostro cuore! Produsse in noi, che mai ce la saremmo aspettata, uno scatto tale di autodifesa che, terrorizzati, con un balzo, spenta istantane­amente la lampadina, ci gettammo verso il muro, cercando, a tentoni, riparo nell'apertura da cui eravamo usciti.

Aveva ripreso a piovere in maniera assai forte e, per fortuna, allora uno scroscio di pioggia attutì e confuse il rumore del nostro salto e del cofanetto lasciato cadere a terra. Però, la risata, quasi emessa da uno stridulo amplificatore meccanico, continuava a bucare la notte, togliendomi il respiro e facendomi martellare convulsamente le tempie per la paura.

Poi, quel crescendo di toni demenziali fu perforato e dilaniato da un sibilo acutissimo che spaccò la notte e s'infranse all'incirca sul posto dove prima avevamo raccolto la piccola urna, purtroppo vicinissimo a noi. Io alzai la pistola in direzione della risata, ma il notaio, che mi stava attaccato addosso, agilissimo, mi fermò la mano. Capii... così ci sarem­mo traditi e il maledetto avrebbe sparato ancora, colpendoci certamente, mentre io, causa l'oscurità e la verticalità del bersaglio, avrei fallito il colpo.

Ora invece avevamo dalla nostra quel buio totale e lo scrosciare insistente della pioggia che sfalsava i rumori, disperdendoli. Continuam­mo a strisciare lungo il muro, sempre sperando di ritrovare la prima apertura e di continuare ad udire la risata del folle che così ci avrebbe segnalato la sua posizione... Ma invece cadde un silenzio, forse ancor più angosciante, rotto appena dallo sgocciolio della pioggia che ora pa­reva voler cessare... Oh, finalmente! Il muro presentava un ampio vano vuoto nel quale c'infilammo immediatamente, tirando un sospiro di sol­lievo. Lì almeno non poteva colpirci!

Accesi la nostra provvidenziale lampadina, schermandola con la mano, nel timore che qualcosa di quel lucore potesse venir percepito dall'esterno. Con nostra grande sorpresa, poiché non avevamo mai visto quel posto, ci ritrovammo in un minuscolo pianerottolo da cui si dipartiva una scala stretta, ma piuttosto agevole, di pietra, appositamente

costruita e non come la precedente, scavata nel tufo. Mi sentii rinascere, dentro, la speranza e, incurante del notaio che mi veniva dietro ansando, salii veloce, raggiungendo il primo pianerottolo. Qui, alla fioca luce della lampada tascabile, vidi un interruttore e lo accesi e subito mi si rivelò dinanzi un vano assai angusto e la seconda parte della scala che, piegan­do in uno strettissimo passaggio, continuava a portare in alto con un'a-scensionalità di gradini ora assai più ripidi e stretti: la pedata era così angusta che il piede non entrava tutto e l'alzata, invece, era tale che la scala, più che in obliquo, pareva posta in verticale.

Guardai il notaio che, pallidissimo ed esausto, si era appoggiato al muro. Era così distrutto che mi sembrò fosse lì lì per svenire. Preoccu­pato, gli bisbigliai piano di sostare, di riposarsi, ed egli che mai accettava di non essermi accanto, per la prima volta fece di sì con la testa. Certo stava malissimo... lo guardai ancora e, con dolore e raccapriccio, mi accorsi che la manica della sua giacca, nonché quel po' di polsino della camicia che si riusciva a vedere, erano macchiati di sangue. Gli occhi mi si offuscarono di un dispiacere cocente di ansietà e di collera. Gli sus­surrai, balbettando, afflitto e senza sapere che fare: "L'ha colpita... Quel­la lurida carogna, l'ha colpita!...". Egli, con un filo di voce che tentava di essere rassicurante, mi disse: "Non è nulla! Mi ha preso di striscio, un po' più su del polso, quando poggiavo a terra il cofanetto... Ma... è che il mio vecchio orologio è stanco!...". Sorrisi amaramente. Io, allora, gli dissi di seder sull'ultimo gradino, tentando di nascondergli la mia preoc­cupazione. Mi era assai caro e così affettuosamente gli mormorai: "Si riposi, io vado su e vedrà che usciremo presto da questa catacomba".

Col cuore stretto in un pugno, cercai di salire più lesto che potevo, ma ad ogni gradino che conquistavo, mi sembrava che mi si chiudesse sopra il coperchio di una bara: infatti andavo vedendo sempre più niti­damente che la scala era senza sbocco! Terminava, infatti, dinanzi ad un muro senza alcuna apertura. Inoltre il mio panico era aumentato, oltre che dal pensiero della ferita del notaio di cui ignoravo la gravità, anche dal fatto che andavo percependo, sempre più distintamente, un forte odore di bruciato che, non so come, pareva provenire dall'alto o meglio, anche se mi sembrava impossibile, da dietro il muro.

Giunto alla sommità, curvo poiché il soffitto risultava bassissimo, mi fermai scorato, tormentato dall'inutilità della salita e dalla grandissi­ma preoccupazione di cosa ora si dovesse fare. Mi sentivo un topo in trappola! Andare avanti non si poteva più e tornare indietro... dove, nel buio? E col pazzo, lì, che ci avrebbe sparato?... Sostavo col cuore in gola ed allora... vicinissimo a me, quasi da me separato da appena un foglio di carta, mi giunse, chiaro e inconfondibile, il suono del vecchio orologio a pendolo del salone.

Il muro ebbe un breve sussulto e un cigolio assai strano: mi pre­sentò in più punti delle feritoie.

Fu un lampo che mi trapanò il cervello ed innanzi alla mia mente si svelò la... realtà!

Ma, come ad affermare una volta e sempre la sua vittoria, al di là di quel muro che ormai sapevo essere soltanto un esile schermo fittizio, sì alzò, più orripilante che mai, più truculenta e bestiale, la risata...

Puntai la pistola in una di quelle fessure e feci fuoco. Anche il notaio, che a fatica e barcollando mi aveva raggiunto, ora sparava attra­verso le fessure che sotto i colpi sembravano sbriciolarsi, aprendo delle brecce sempre più ampie. Ed ecco che, finalmente, quel latrato delirante di risata folle e demoniaca si cangiò in un urlo che superò gli spari e morì in un gorgoglio roco ed ansimante... Si udì allora il frastuono di un corpo vetroso, infranto con furia e il crepitio più forte del fuoco nel caminetto, come ravvivato da una sostanza altamente infiammabile. L'aria era irrespirabile per il fumo, il forte odore di bruciato e il puzzo dolciastro e nauseabondo di quel qualcosa che avevamo odorato già tante volte e che si elevava intensissimo su tutto.

Il mostro avanzava con passi pesanti ed incerti; era assai facile poterlo capire dal rumore che era a noi vicinissimo: ansava come una bestia ferita e lo udivamo digrignare i denti. Fece per venire verso la parete che ci divideva da lui... Pensai: - Se spara, ci prende in pieno -e tentai di guardare attraverso le ampie fessure, per cercar di valutare la distanza: ebbi modo di vedere che era una figura maschile, vestita di scuro, che a me parve essere smisuratamente alta e grossa, gigantesca... j Terrorizzato, azzardai in extremis e sparai l'ultimo colpo che mi era rimasto!... Quella belva umana, certamente colpita, ruggì un gemito lungo e satanico che poi mi si tramutò in un diluvio di suoni scomposti e rantolanti, ora acuti di spasimo, ora chiocci di soffocamento. Barcolla­va e mi sembrava agitasse selvaggiamente le braccia... Noi, intanto, cautamente, eravamo arretrati di qualche gradino e ci eravamo accucciati, bassi, cercando protezione negli scalini sovrastanti.

L'uomo, indi, con uno scatto di rinnovata energia, si spostò di botto e, ripetuta in chiave meno lacerante la sua risata da demente, sparò, sparò!

...Dei sibili penetranti trafissero il nostro spasimo d'attesa e, poi­ché ci eravamo rannicchiati più in giù, tre colpi passarono radenti sulle nostre teste, conficcandosi nella volta bassa.

Attimi eterni di terrore e di spasmodici interrogativi, con la morte, lì, ad un passo!... E quella risata satanica, già quasi un rantolo, che si drogava ancora di vittoria... Ma no, s'allontanava e l'uomo, finalmente, si dava alla fuga. Udimmo distintamente i suoi passi che si perdevano in lontananza...

Con una furia da pazzo, mi diedi a grattare quel muro e a colpirlo con il calcio della pistola. Avevo le mani graffiate a sangue, e voglia di sangue era nell'anima mia! Sotto tale tempesta di colpi, quella parvenza di muro si sgretolava sempre più: colpivo incurante del dolore e delle escoriazioni e, spallata dietro spallata, il varco fu tale che, pur stracciandomi la giacca e benferendomi la spalla e il braccio, riuscii a passare a stento.

Una volta dentro, mi precipitai verso il caminetto e vidi che colà, in una nuvola di fumo, ardeva qualcosa. Corsi in cucina e, come un forsennato, riempii un secchio d'acqua che scaraventai sulle fiamme. Il fuoco per fortuna si spense, lasciando nella stanza un odore acre che toglieva il respiro e mi soffocava di tosse.

Aprii la grande finestra che fece subito corrente con la porta del salone aperta e, più in fondo, oltre il vestibolo, con quella esterna del castelletto anch'essa lasciata spalancata.

Come sotto un incubo che mi scudisciava dentro, corsi fuori ed allora mi accorsi che si perdeva nell'oscurità della notte il rombo di un motore... Mi guardai attorno furibondo: l'automobile del notaio non vi era più! Quel demonio maledetto era fuggito con la macchina!... Sì, ahimè, con la nostra macchina!

Percorso allora da un brivido gelato, mi ricordai del notaio e ritor­nai, correndo, dentro. Egli non era in salone!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 2


Frustato da un atroce presentimento presi dal camino il grosso paiolo artistico e le molle e cominciai a menar colpi da orbo su quella fenditura di muro: aprii così un varco che permetteva quasi agevolmente di passare avanti e indietro.

Il notaio Ferguson era a terra, piegato su se stesso, un povero cencio d'uomo. Teneva il braccio ferito sulla gamba, ove si era formata un'ampia chiazza rossa. Con l'altra mano si premeva il petto, respirando a fatica. Tuttavia, come in uno spasimo, mormorava a se stesso, ossessivamente: "E Selenya?... Dov'è Selenya!... Dov'è?". La stessa domanda atroce ed assillante era nel mio cuore, ma tacevo, per non affliggerlo di più...

Con la massima delicatezza, sorreggendolo meglio che potevo, riuscii a farlo passare attraverso il varco del muro. Lo adagiai sul divano e, con cura e prudenza, riuscii a togliergli la giacca, tentando di non fargli male al braccio ferito. La camicia era intrisa di sangue e quindi fui costretto a tagliare la manica, usando le forbici della cucina che, chissà perché, erano sul tavolo. Per fortuna mi potei rendere conto subito che la ferita era stata provocata solo da un colpo di striscio.

Mi precipitai ancora una volta in cucina e lì trovai uno strofinaccio candido con cui tentai di tamponare la ferita, dopo averla accuratamente lavata. Purtroppo in casa non riuscii a trovare dell'alcool, né alcun altro disinfettante: mi dovetti arrangiare con la sola acqua...

Il notaio mi guardava riconoscente e mi lasciava fare. Si vedeva che, al di là della ferita vera e propria, tutto quell'insieme di drammati­che circostanze e quell'incalzare angoscioso e snervante di avvenimenti lo avevano del tutto affranto e privato di qualsiasi energia fisica e morale.

Soprattutto, però, la cosa che maggiormente ci annientava era l'inutilità di questa allucinante traversia: infatti non avevamo trovato Selenya e non avevamo né potuto vedere, né, tantomeno, catturare e uccidere il male­detto sconosciuto che si occultava nel sotterraneo del castelletto.

Ormai nella stanza non vi era più quell'odore soffocante e quel fumo. Per questo richiusi la finestra e tolsi al notaio quegli indumenti fradici di pioggia, lo avvolsi ben bene nella coperta che era in una ca­mera da letto e gli fasciai meglio che potevo la ferita con una benda improvvisata: una striscia stracciata da un lenzuolo che pareva pulitissi­mo. Egli ben presto, esausto, cadde in una specie di sopore ed io mi portai nell'atrio dove era un telefono con l'intento di chiamare l'ospedale di Soldlake poi non distante da Stockwell e quindi da Blackvalley.

Ma qui ebbi un colpo che mi fece gelare il sangue... Altro che guasto! Il telefono principale era stato tagliato! Allarmatissimo, verificai ogni apparecchio telefonico della casa: ovunque il telefono era muto!...

Osservando attentamente in basso, si poteva vedere che il cavo era stato reciso in irripristinabile maniera. Ecco, perché sul tavolo del salone vi era la grossa forbice della cucina! Il maledetto, probabilmente, stac­cata la corrente, si era servito di quella, per quest'altra sua infame ma­lefatta. Imprecai come un pazzo su quel mostro e sulla sua ultima trap­pola che per noi era davvero un'atrocità. Infatti, senza macchina e senza telefono e con il notaio in quelle condizioni, la situazione era davvero gravissima e preoccupante. Ma ancora non sapevo quello che ben presto, con crescente apprensione che si andava man mano tramutando in ango­scia, avrei avuto modo di scoprire.

In casa non vi era assolutamente nulla da mangiare, proprio nulla di nulla... Né nel caminetto, o in altro luogo, era un ultimo piccolo ceppo adatto a riscaldare quelle mura che non offrivano alcun calore. Mi sedetti al tavolo, prendendomi la testa tra le mani, per cercare di fare il punto della situazione che non era davvero lieta. In più, e questo era quello che mi bruciava maggiormente, quella nostra specie d'inseguimento e di estenuante ricerca si erano conclusi con un nulla di fatto: il folle era fuggito, sìa pur ferito (non vedevo tracce di sangue, ma della cosa ero quasi certo) e di Selenya neanche la più piccola traccia. Mi rimaneva solo di andare a perlustrare quell'altro ramo del cunicolo sotterraneo in cui non eravamo stati; probabilmente da lì si arrivava al capanno.

Bevvi un ampio sorso d'acqua, l'unica cosa che vi era in quella maledetta casa! Mi obbligai a concedermi qualche minuto di riposo, perché sentivo che le forze mi abbandonavano per una stanchezza infi­nita. Tanto più che il giorno prima per la grande ansia non avevo pran­zato.

In verità erano state ore di fuoco e i nervi cominciavano a cedere anche a me che, pur parecchio più giovane del notaio, ero in pari condizioni di logorante tensione e tribolo. Così mi ordinai una parentesi di pausa mentale che mi ripromettevo durasse pochi minuti. Invece, si vede che mi colse un sonno pesante che, malgrado la scomoda posizione e quel freddo umidore degli abiti bagnati che mi tenevo addosso da ormai troppe ore, m'immobilizzò per un po' di tempo...

A destarmi di soprassalto fu un colpo di tosse del notaio...

Scattai in piedi, stropicciandomi gli occhi, con tutte le membra indolenzite e mi guardai attorno. Il notaio dormiva ancora e sembrava di un sonno ristoratore che gli rilassava i muscoli del viso. Nelle ore pre­cedenti, al contrario, gli avevo visto i lineamenti contratti, in una ma­schera stravolta.

Andai alla finestra e dai vetri mi giunse un inizio di alba livida, tutta imbacuccata in un biancore di vapori stagnanti. Non pioveva più, ma il paesaggio sembrava ora più che mai squallido e irreale, con quei contorni svanenti, senza linee precise; gli stessi cipressi, perduta la loro cupa ieraticità di giganti guardiani, smarrivano la loro chioma ravvolta da una nebbiolina bianco-grigiognola... In quell'incertezza di visualità, non avevano essi sfondo alcuno, quasi che sorgessero, come fantasmi, dai velami soporosi della nebbia, e da insospettabili avelli che si spalanca­vano nel terreno...

Mi sembrò di esistere in un mondo diverso, fittizio, irreale, in cui j il sole e la natura stessa erano stati sostituiti da apparenze inesistenti, recintate da quella cortina isolante di bambagia che, a vista d'occhio, infittiva sempre più. Così, sigillava quasi quel paesaggio già per se stesso tanto deprimente con una coltre narcotizzante che preludeva alla morte.

Esasperato, corsi fuori, sperando colà di poter avere una migliore visibilità con un orizzonte più libero. Ma purtroppo anche lì la visione fu opprimente ed assurda, chiusa tanto da dare un'impressione di soffo­camento.

Mi arrestai veramente preoccupato: con quel nebbione non potevo minimamente pensare di andare a piedi a Stockwell! La cosa, già in condizioni normali, era un'avventura davvero rischiosa, causa la lonta­nanza, l'asperità del percorso e il rischio maggiorato dal fatto che io avevo terminato tutti i colpi della mia pistola. Certo che adesso anche questa ultima disperata risorsa veniva meno, poiché non ci si vedeva a distanza di pochi passi. La nostra situazione, me ne rendevo conto, era davvero catastrofica e disperata, col notaio ferito e in casa nessun medi­cinale, senza macchina, con i fili del telefono tagliati e senza neanche la più piccola risorsa alimentare, tranne l'acqua... Senza poi trascurare l'enorme pericolo che quel pazzo disgraziato ritornasse: avrebbe avuto facile accesso alla casa percorrendo la strada che noi avevamo fatto quella notte, entrando, poi, dal vano apertosi nel muro rotto. A quel­l'idea, rabbrividii, ricordandomi di aver preso sonno poco prima... Ciò a parte, e non era poco, mi rendevo conto già sulla mia persona, rattrap­pita e dolorante per lo sforzo e per tutto quell'umido dei panni bagnati che mi ero, purtroppo, dovuto tenere addosso, di quanto la situazione peggiorasse attimo per attimo. E come se ciò non bastasse, mi sentivo nello stomaco un languore e un intenso senso di vuoto che mi causavano come degli strani crampi.

Ad un tratto, in lontananza, sentii il suono ovattato di una campana che, più che suonare normalmente, sembrava vibrare ad intermittenze discontinue per colpi inferti che ne procuravano lo sconsiderato dondolio e quindi un suono rotto e frammentario. Mi ricordai di aver udito già quando ero al capanno e poi in salone quel suono così particolare. Mi dissi: "In questo maledetto paese anche le campane suonano storto e tutto è come sotto un incubo malefico".

Non volevo decidermi a rientrare perché non sapevo cosa fare e sentivo che mi andava prendendo una specie di panico impotente. Così, in quel silenzio, cessati i rintocchi, con sgroppate di suoni ora improvvisi e radi ora tumultuosi, mi accorsi che dal fondo della vallata, giù, giù, in direzione del bosco, o meglio del fiume, giungeva un rumore cupo ed ansante, come di un ribollio pericoloso. Tesi le orecchie e il suono si andò precisando: era il rumoreggiare pesante ed ossessivo del fiume in piena. Sì, evidentemente per la troppa pioggia, o per chissà mai quale altra maledetta ragione, il Black River era in piena e schiumeggiava in quel suo angusto letto, tra i sassi, scuro e minaccioso. Mi aveva detto il notaio che era capitato già altre volte che il fiume si fosse ingrossato tanto, mugghiando per giorni e giorni e spumeggiando una bava grigiognola, come una barriera d'acqua scura e limacciosa attorno a Blackvalley. Anzi, qualche volta, così mi aveva narrato, aveva straripato e distrutto quel pontile che praticamente collegava il castelletto al mondo dei vivi...

Un cerchio di apprensione, sul limite del collasso nervoso in cui mi trovavo, mi fasciava la testa. M'imposi di non pensare e rientrai, sempre con quell'ansietà latente che quel maledetto, riapparendo, ci; piombasse addosso...

Il notaio era sveglio e si era seduto. Mi rassicurò il fatto di veder­gli il viso più disteso, ma subito mi dissi che appena avesse appreso la drammaticità della situazione, avrebbe cambiato espressione... Egli mi mormorò di star meglio e che era riuscito ad andare in bagno a lavarsi un po' il viso. Il braccio gli faceva poco male, ovviamente se non lo muoveva. Mi chiese con gentilezza se potevo andare nella sua macchina a prendergli, dalla tasca laterale, un flaconcino con le gocce per il cuore. Poi, ammiccando, mi disse che vi era anche una bottiglietta di un ottimo cognac che, per colazione, non ci avrebbe fatto male!...

Al momento rimasi interdetto se dirgli e come dirgli che la mac­china non c'era più: se l'era presa quel dannato! Egli mi vide impacciato ed esitante ed ansiosamente mi chiese: "C'è qualche problema?". Io annuii e a malincuore dovetti dirgli la verità. Egli mi ascoltò, rabbuian­dosi sempre più, poi, con rabbia, mi sibilò tra i denti: "Anche questo deve pagare!". Indi, imponendosi della calma, mi chiese: "Hai avvertito la polizia?". Non me la sentii di dirgli anche quest'altra terribile verità ed annuii. Egli mi domandò: "Han detto che vengono?". "Appena pos­sono", mentii e frettolosamente andai di là.

Ancora una volta mandai all'aria tutta la cucina e ogni altro arma­dio, alla ricerca di qualsiasi cosa da mangiare, ma non vi era assoluta­mente nulla: si vede che la cuoca, che era stata licenziata, prima di andar via aveva voluto fare una pulizia radicale, buttando ogni cosa.

Certo, pensava che, dopo la morte dei miei zii e il fatto che mia madre fosse venuta ad abitare definitivamente con me, nessuno avrebbe più soggiornato e quindi non necessitava alcunché di commestibile.

Tutto questo ragionavo in mente mia per dare alle cose un aspetto razionale, scevro da quello stato di timore che mi ossessionava. Ma, malgrado i ragionamenti più o meno logici e consequenziali, restava il fatto che lì non vi era nulla da mangiare e che, se una circostanza for­tuita, in cui non speravo più, non ci avesse salvato, io e il notaio nel giro di pochi giorni saremmo morti come due sorci in gabbia. Al contrario, se avessimo tentato la folle avventura dell'attraversamento del Black River, posto che il ponticello esistesse ancora, o saremmo annegati in quei gorghi d'acqua turbolenta, o saremmo caduti esausti per terra lungo i troppi chilometri di strada per fame e sfinimento.

Con masochistica crudeltà, cercando di soffocare lo sgomento che mi andava sempre più travolgendo, bofonchiai: "Che bella prospettiva, Ronny!" e, mai come quella volta, ancor più di quando nella notte ero a pochi passi dal mostro, mi sentii candidato a vicina morte.

Esasperato mi accesi una sigaretta, un po' umidiccia in verità, una delle poche che ancora mi restavano! Speravo così di placare anche i bron­tolìi insistenti che provenivano dalla mia pancia digiuna ormai da un po'. Pian piano, intanto, accanto a me era venuto il notaio che con voce conciliante mi diceva: "Nell'attesa che quei signori vengano, non ci potremmo prendere qualcosa di caldo?".

Mi morsi le labbra per non urlargli la terribile verità e con voce brusca riuscii a dirgli: "Andiamo di là che le rifaccio la fasciatura..." con falsa bonomia, tentai di ironizzare: "Non sapevo di avere in me delle buone doti di infermiere! Per fortuna vedo che la ferita va proprio bene! Credo che su questo campo ce l'abbiamo fatta ed è veramente un mira­colo, poiché qui è peggio del deserto: non vi è assolutamente niente, neanche per la più piccola emergenza...".

Mi venne istintivamente di calcare la voce sul niente e, intanto, i miei occhi, cupi e preoccupati, scrutavano fuori, oltre il grande finestrone. Sembrava di vivere in un paesaggio del tutto irreale; contro i vetri era una specie di lanuggine stagnante di un grigio periato; oltre questa s'intravedevano, come schizzi realizzati da una stinta matita, degli sgorbi di alberi di un verdognolo qua e là meno intenso e impreciso, il tutto molto sfumato ed evanescente. Il notaio seguì il mio sguardo ed anch'egli si accorse di quella pesante cortina di nebbia che gravava tut-t'attorno... Credendo di comprendermi, commentò: "Bel guaio! Con questa nebbia sarà una grossa difficoltà venirci a riprendere!...". Indi s'alzò e fece qualche passo, mormorando: "Il mio vecchio stomaco bron­tola e richiede la sua parte". Io tacevo e restavo immobile. Egli mi lanciò un'occhiata di sfuggita e incominciò a subodorare qualcosa...

Passammo dei minuti in silenzio e quel silenzio e quell'immobilità dissero la verità. Allora il notaio, con malcelato disagio e preoccupazio­ne, tentò di dimostrarmi una facile assuefazione: "Ho capito, il convento non passa nulla! O mi sbaglio?... Pazienza!... Faremo una ricca mangia­ta quando saremo al paese...".

Intanto che lui parlava, il mio cervello era un mulinello di idee su idee, ma purtroppo tutte da scartare: sapevo che non mi rimaneva altra soluzione che tentare di raggiungere Stockwell a piedi ed era già un'im­presa disperata! Ma con quella nebbia, col fiume in piena la cosa era veramente follia. Comunque lasciar lì, da solo, il notaio ferito, in una casa ove adesso si poteva accedere con estrema facilità, era per se stessa cosa azzardatissima e razionalmente da escludere...

Il notaio si alzò e andò nell'atrio, ove era il telefono. Lo lasciai fare, poiché il turbinio della mia mente incapace di trovar soluzioni, ora si aggrappava ad una qualsiasi possibilità offertami da altri...

Sentii che alzava il ricevitore e che poi dalla gola gli usciva un suono strozzato che era un gemito, ma di rabbia. Lo sentii armeggiare e, poco dopo, con passo lento e strascicato ritornò in salone. Mi guardò con quei suoi occhi lucidi, stretti in uno scrutamento inquisitore. Feci appena un gesto di sconforto con le mani, mentre egli si portava al finestrone. Fissò a lungo la nebbia e poi con gli occhi colmi di nebbia, si andò a sedere e mi disse grave: "È bene che cerchiamo di fermare quanto sap­piamo su della carta. Ho visto che hai con te il taccuino...". Era chiaro il perché di quanto mi diceva. Andò a prendere la giacca che era poggiata sulla spalliera di una sedia e dalla tasca interna, con il braccio sano, tirò fuori a fatica quello strano disegno appallottolato. Lo distese meglio che poteva sul tavolo, tentando, per come riusciva con una sola mano, con massima cura di lisciare e cancellare ogni falsa piega... Poi, con la matita, mentre mi mostrava, andava ricalcando le linee. "Ecco, vedi - mi disse - riguardando bene, mi si conferma ciò di cui avevo avuto una mia certa intuizione. Queste linee vaghe, tutte confuse e tremolanti si dipartono dalla cosiddetta testa di questa specie di fantoccio. Non sono linee a casaccio, ma in verità, secondo me, vorrebbero rappresentare simbolicamente, assieme al tondo, il sole con i suoi raggi. Invece, con­cretamente, è il piccolo spazio erboso a cielo aperto ove quella carogna mi ha sparato".

Guardai, incuriosito ed in effetti quest'ipotesi ora mi sembrava più che accettabile. Tuttavia continuavo a non capire. Gli chiesi: "E allora?". Egli ignorò la mia domanda e, continuando a ricalcare le linee, mi mostrò una di queste che non partiva da quel tondo ma si biforcava da quell'altra linea che poi conduceva al disegno del castelletto. La percorse con la matita e mi indicò che essa portava sul limite della carta ad uno scarabocchio pentagonale che aveva qua e là degli abbozzi di alberi. Mi disse: "Questa potrebbe essere la capannetta degli attrezzi!". Mugugnai un assenso, poiché dentro di me avevo già contemplato questa ipotesi. Dissi a voce alta, soffocando a stento nel fazzoletto qualche starnuto:

"Sì, penso sia così! Ecco, quindi, dove porta quella biforcazione che abbiamo incontrato nella galleria sotterranea. Comunque, verificherò appena possibile. Se è così, dal mulino si può andare, tramite quel con­dotto, al castelletto ed uscire qui o al capanno e poi fuggire nella cam­pagna, facendo perdere ogni traccia nel bosco". Il notaio annuì e con voce distrutta dalla pena, ipotizzò a se stesso: "Quella notte, chissà come, ha attirato Selenya o al mulino o, ma lo credo meno probabile, qui, mettendo in moto questo diabolico pannello e poi se l'è portata via da quella maledetta baracca in cui, se ricordi, c'era una grata che non siamo riusciti a togliere".

A me sembrava che quelle parole bruciassero dentro come tizzoni ardenti. Esclamai, agitatissimo: "Dannazione! Ma ora dov'è? Dove l'ha portata?... Dove, dove?!... Nessuno sa niente!... Ma perché?... E chi è quel dannato?"... Solo allora mi accorsi che delle rade lacrime roventi mi solcavano le guance. Il notaio, pallido come un morto, si mordeva le labbra a sangue.

Scattai: "Vado di nuovo giù, vado a vedere, a cercarla!... Chis­sà...".

Egli, con affetto, poggiò la sua mano tremante sulla mia e, sotto­voce, per dissuadermi, mormorò: "Calmati, Ronny. Credi che possa es­sere ancora lì?... E poi, anche tu sei sfinito e sul limite del cedimento. Stanotte è stato quel che è stato e tu non hai dormito... In quel cunicolo senza aria, aggiungendo stress a stress e poi senza più colpi in canna, sarebbe rischiosissimo... Anche se credo che quel maledetto, probabil­mente ferito, se ne sia già ben scappato... e con la mia macchina!... Non ci resta che attendere qui, insieme, non so cosa, ma attendere qui...".

La sua voce era pervasa da una rassegnazione sfibrata, ma gelida, mentre, ora me ne accorsi, la sua mano scottava. "Ha la febbre?", gli chiesi ansioso e contrariato. Egli mi sorrise appena e mormorò: "Che vuoi che importi, adesso! Invece guarda ancora questo disegno; ora mi sembra assai chiaro: questo sgorbio potrebbe rassomigliare a un'idea embrionale di uomo con i piedi nel fiume, esattamente nel punto dove è stato ritrovato il cadavere del giardiniere Bosas; qui qualcuno volutamen­te ha evidenziato questo luogo preciso con una croce, anzi, se guardi bene, la croce è stata tracciata con la stessa matita di chi ha fatto il disegno in primo piano del fiume; chi lo ha fatto aveva una mano pitto­rica ben precisa". Sospirò affranto: "Theanò dipingeva così bene..."; ed io gli feci rabbiosamente eco: "Anche Selenya!...".

"Invece, osserva, Ronny, il fantoccio è stato fatto certamente da altri, e poi, chissà perché, ha per testa il sole!...".

Azzardai: "O ha un suo significato preciso, ad esempio inerente ai punti cardinali, e...". Esitai, riflettendo un po', poiché questa mi sembra­va l'ipotesi più attendibile, anche se non ne sapevo il perché: "...e il disegnatore è quel maledetto che si superomizza tanto da ritenersi il sole, sorto dal fiume, o meglio risorto dall'annegamento nel fiume!".

Il notaio fece un gesto vago che mi sembrò di assenso e con quella sua grafia stretta e nervosa annotò sul disegno: luogo del ritrovamento del cadavere di Hander Bosas giardiniere dei Kefrai... Mulino... castelletto... Capanno degli attrezzi... Percorso rinvenuto da me Nick Ferguson e da Ronny Masters in data..., mentre inseguivamo lo sconosciuto della risata che ha sparato e poi è fuggito forse ferito con la mia macchina...

Ciò fatto si fermò e si prese la testa con la mano, indi si strinse addosso la copertina. Lo vidi rabbrividire ed allora mi accorsi che an­ch'io ero un pezzo di ghiaccio, tutto dolente per quell'umido che mi ero tenuto addosso. Di scatto mi alzai e, presa una vecchia seggiola, la sbattei con furia contro il muro: le gambe se ne vennero e in mano mi restò l'imbottitura con il quadrato che la sosteneva. Andai al caminetto e vi gettai due tronchi di gambe e l'imbottitura. Poi, preso l'accendino, feci per far fuoco, rimuovendo con un legno la cenere. Allora mi accorsi che tra tutto quel bruciato e tra i cocci di una bottiglia selvaggiamente fran­tumata, vi erano dei piccoli brandelli di carta, ancora un po' leggibili. Scostai il fondo della bottiglia, l'unico frammento intero che era rimasto e feci per buttarlo in un canto. Ma ecco che mi giunse all'olfatto, disgu­stoso più che mai, quell'odore guasto e nauseabondo. Il notaio che mi era venuto vicino, anche lo avvertì e m'ingiunse: "Lascialo in un canto, ben visibile, affinché, se qui arriverà qualcuno, si possa far analizzare dalla scientifica qualche goccia rimanente del contenuto".

Io afferrai quel fondo di bottiglia con le molle dell'attizzatoio e lo poggiai in un angolo della tavola. Poi, mi chinai, attentissimo, per rac­cattare quei fragili brandelli di carta che, poiché bruciacchiati, tendevano a sfaldarsi appena toccati.

Tentai di leggere a voce alta: "...eginald, ho tanta pau...". Sotto, nello stesso frammento, riuscii a capire: "...non so perché ma...".

Nel sentir queste parole, il notaio era balzato in piedi e mi si era chinato vicino, mormorando: "Ma è Theanò! Mio Dio, ne riconosco la scrittura... e che significa? Quando l'avrà scritta e perché?!...

Qui io capisco: - Reginald, ho tanta paura -, non ti pare, Ronny?".

Annuii, osservando: "Questa frasetta, però, non capisco: - non so perché ma -, sarà mamma, o mai? O che altro? E di chi aveva paura? Del giardiniere?".

Altro su quel lembo di carta bruciacchiata era difficile leggere, solo, qua e là, si capivano sillabe che a noi nulla significavano. Ancora, per ultimo, in una specie di brandello residuo, riuscimmo a decifrare: "...ssena sicur...". Il notaio con un filo di voce, azzardò: "Chissà se voleva parlare di quel misterioso - Podere Polissena -, di cui ha scritto I in quel biglietto che trovai occultato sotto la tappezzeria... Ed allora!? Se... se... Ooh, impazzisco!... Ma che farnetico, mio Dio!: Theanò è morta, capisci, Ronny, così mi ha detto Reginald... ma io non l'ho vista, non l'ha fatta vedere a nessuno...".

Io, ascoltandolo, mi torturavo in mille ipotesi, incapace di discer­nere. Frugai ancora tra la cenere, sperando. E in effetti riuscii a tirar fuori I altri pezzetti dì carta, ma non vi si leggevano che sillabe e parole mozze, I incomprensibili.

Il notaio li guardava come ipnotizzato e continuava a ripetere: "È la scrittura di Theanò, ne sono sicuro... Ma da dove può aver scritto questi fogli che paiono lettere, se, da quando si è sposata, non si è mai I mossa da qui?... E poi, ...ne è stata bruciata di roba nel caminetto da quando Theanò è... morta, se morta è!... Ma sì che è morta, povero pazzo illuso!...".






 

CAPITOLO 3


Io intanto non mi davo pace e, con cura spasmodica, continuavo a smuovere, pianissimo, la cenere e, dal quantitativo di rimasugli e di strati di polvere cenerina mi rendevo conto che i fogli bruciati dovevano esser stati parecchi. Portavo sul tavolo anche il più piccolo frammento, sperando sempre nel miracolo chiarificatore. Su uno riuscimmo a deci­frare: "...Vieni or..." e sotto, in un canto: "...iamant... sono...". E an­cora dopo: "...anche a Kno...". Nel leggere quest'ultima scritta io e il notaio, ad una voce, mormorammo: Kno vorrà dire Knopulis...!?".

Quella località, della Grecia probabilmente, quella Knopulis con quel misterioso podere Polissena, ora, lo sentivo, era per noi come l'ul­tima rocca della speranza, un'assurda speranza non so di che. Il notaio interruppe il farneticare dei miei pensieri e, con una voce roca e fremen­te, mi disse: "Ti giuro, Ronny, che, se riesco ad uscir vivo da questo dannato luogo, vado subito in Grecia e non torno finché non saprò, finché non troverò questa località che ho tanto cercato, senza trovarla, sulla carta geografica, e il Podere Polissena e... e...". S'interruppe che la voce gli si era incrinata di violenta commozione. Si versò da bere. Sul tavolo aveva portato la brocca piena d'acqua, l'unica cosa che ci restava, ormai. Ne bevve un po', a piccoli sorsi, deglutendo lentamente. Si vede­va chiaramente che stava male...

Io intanto avvertivo sempre più la stanchezza, il sonno e il languo­re di stomaco che mi serrava dentro come una morsa di ferro... Ora io e il notaio, lui sul divano e io sulla sedia, presso il tavolo, eravamo due statue in cui l'attesa non era più neanche tale, ma apatia... Vive solamen­te, mi tornavano agli occhi quelle parole incomplete, certamente custodi di segreti... (e - iamant? - mancava la d di diamante?).

"Maledizione!, forse i diamanti sono il fulcro del mistero!"...

Tra un arruffio di pensieri vaghi e stanchi, captavo il passaggio indifferente del tempo ed il pensiero che sopraggiungesse la notte, un'al­tra notte, mi precipitava in un imbuto di paura... Però, quando l'anima acquisisce attimo per attimo la più lucida coscienza dell'ineluttabile avvicinarsi alla fine, il tempo va prendendo una diversa dimensione. È quasi una staticità e in quanto tale, è inesistente; anzi va via via confi­gurandosi in una nuova unità in cui l'oggi senza dopo, fuso al luogo e alla circostanza, diviene la camicia di forza della tua impotenza a qual­siasi azione.

Pur nel vago delle mie elucubrazioni, il concetto di impotenza mi frustò dentro e con uno scatto (i miei movimenti, notai, erano adesso tutti a scatti, perché guidati da quella sottesa tensione nervosa) mi accostai al vano rotto nel muro, da dove veniva un freddo sottile. Con tutte le mie forze spinsi quel pannello ligneo, affinché coprisse totalmente l'apertura. E mentalmente mi stupii di non averlo fatto precedentemente, dato che l'apertura era ormai un facilissimo accesso...

Bofonchiai, più che altro tra me e me: "I tre fiori, diceva Selenya... Ma che fiori?".

Il notaio indubbiamente doveva avere la febbre alta ed ora, dopo quella lunga parentesi di silenzio, aveva ripreso a parlare eccitato... Parlava, parlava... ed io credo di essermi assopito...

Dopo, senza nozione del tempo, né rendendomi conto di quanto avessi dormito mi ritrovai ad ascoltarlo che diceva: "Non capirò mai come Reginald possa aver scelto una landa come questa, lui che era un uomo così brillante, bello e ricercato dalle donne, abituato a viaggiare e a girare il mondo con il suo fascino e con i suoi tanti soldi... Invece chiudersi qui, solo con quel pazzo ubriacone del giardiniere che poi, secondo me, non era solo giardiniere, perché diverse volte, ricordo, spa­riva. .. Reginald diceva che lo aveva mandato a sbrigare delle sue faccen­de... E Theanò, poi, povera piccola capinera, chiusa in quest'inferno di solitudine, di tristezza! La sposò che aveva appena diciott'anni; lui, in­vece era parecchio più vecchio... Theanò mi raccontava che lo aveva conosciuto durante una crociera e lui le aveva narrato di questo suol meraviglioso castelletto, in un paesaggio misterioso e selvaggio dove egli aveva deciso di ritirarsi a vivere... Lei che era una sognatrice fantastica ed amante dei luoghi singolari che immaginava magici e affascinanti, accettò felice... Povera bambina, invece, in quale stramaledetto carcere andò a finire... e qui è morta, pur non avendo ancora trent'anni, consu­mata da questo grigiore, da questa nebbia, dall'urlo del vento e dagli occhi da pazzo di Bosas che la sorvegliavano sempre... Lei che era il sole, la gioia, il sorriso, anzi non solo la sorvegliava ma pareva che la divorasse... Theanò ne aveva paura ed era tanto contenta quando qui veniva qualcuno. Gli unici che frequentavamo questo postaccio eravamo io, il pastore Samuel Brown e sua sorella Margaret. I rari amici di Reginald che venivano di tanto in tanto erano ricevuti a parte, nel suo studio; e Reginald con loro pranzava fuori, dicendo che doveva discutere d'affari...".

Ciò detto fece un gesto brusco, rabbioso, con il braccio ferito. Lo vidi serrare le labbra, ma ciò malgrado non gli uscì un gemito: mi guardò e quasi a farsi perdonare tentò di sorridermi, ma vidi che i suoi occhi febbricitanti più che guardarmi mi frugavano dentro e da me correvano a quella finestra...

La nebbia era un po' diradata e sembrava salire in alto, quasi a dare a quel baluginio di luce smorta una veste ancora più incerta. In essa i contorni svanivano, dissolvendo le forme in chiazze e l'ora del giorno in una opacità di tinte. Forse sarà già pomeriggio, pensai e a precipizio guardai l'orologio che continuavo a caricare freneticamente nel terrore che, fermandosi, mi avrebbe anche tolto la nozione del tempo.

"Sono già le quattro" - esclamai - e il ricordo di quell'ora mi mise dentro uno stupore ed un'ansia insieme: in fondo non era passata un'eter­nità, che, in quel maledetto posto, eravamo appena dal giorno prima! Ma la terribile sequenza degli avvenimenti mi avevano moltiplicato il peso e la lunghezza delle ore in maniera terribile, sicché non mi rendevo conto... E poi, ora sarebbe venuto buio, e poi la notte, e poi, e poi?... Il notaio credo che non mi avesse neanche sentito, infatti continua­va quel suo dolente monologo: "Quante volte Theanò aveva supplicato Reginald di andar via insieme da quel luogo così opprimente e solitario. Lui le prometteva che appena avesse terminato un suo qualcosa, di cui nessuno sapeva nulla, sarebbero partiti, ma questo non avvenne mai. Mai, mai ahimè! Stava rintanato qui, con quel maledetto suo uomo di fiducia. Riceveva di tanto in tanto alcuni personaggi che diceva essere sue vecchie conoscenze... Era come ipnotizzato dall'influsso malevolo di questa casa che nemmeno si avvedeva che Theanò se ne moriva e piano piano si andava staccando da lui... se ne accorgeva invece quel maledetto Bosas che ci spiava sempre... Anzi, quando la domenica mattina accompagnavo Theanò al culto con la macchina, poiché Regi-nald non era mai disponibile, ce lo vedevamo in chiesa e all'uscita, con quegli occhi rapaci, da folle. Addirittura, una volta, mentre si era alla funzione, aveva trafugato dalla macchina il piccolo lupo di peluche che Theanò mi aveva regalato come portabonner: Reginald scherzosamente mi chiamava "Nick Wolf ' per il mio sguardo secondo lui penetrante. Ce lo lanciò contro gorgogliando in quella sua risata demenziale: "Lupo -huuh..."

Spegneva così quei nostri brevissimi momenti di felicità, assieme finalmente soli, in quel tragitto da Blackvalley a Stockwell che avremmo voluto fosse eterno...".

Io lo guardavo con profonda apprensione, rendendomi conto, ora che lo vedevo così eccitato, mentre comunemente era freddo e control­lato, che doveva essere in preda alla febbre e anche ad una ben forte febbre. Ma che potevo fare? Sentivo che in me stava avvenendo qualcosa che intorpidiva i miei pensieri e, pur accrescendomi dentro l'angoscia per l'ineluttabilità della situazione, mi dava anche una specie di rassegnata acquiescenza. Coll'idea di svegliarmi, mi versai dal boccale un bicchiere e bevvi un gran sorso. Ma quell'acqua fredda, dura, a digiuno, mi cadde come un peso sullo stomaco, che quasi mi venne da rimettere. Mi dissi, per confortami: - Sono i nervi, Ronny! - guardai l'orologio e, con pas­siva puntigliosità, registrai: 17,7. Meccanicamente cercai un raffronto dell'ora oltre i vetri: era scesa un'oscurità lattiginosa, grigiognola che pareva fatta nella trama e nell'ordito da filamenti di baluginìi in estinzio­ne, intrecciati a frammentari nastri di buio. Mentalmente, ma come sul block notes di un altro, annotai: - È accesa la luce in cucina, ma è meglio che la spenga e serri bene la porta. Accenderò qui in salone il lampada­rio; però così noi da dentro non vedremo più nulla di fuori, sia pur che pochissimo si potrà vedere, mentre, invece, saremo noi in piena luce per chi guarda dall'esterno. - Mi alzai allora di scatto e tirai dinanzi al finestrone la grande tenda di velluto cremisi, la più interna delle due.

Il notaio seguiva i miei movimenti con occhi lucidi, ma non come al suo solito, attentamente. Con gentilezza affettuosa, gli avvolsi bene la coperta addosso e gli dissi piano: "Provi a dormire un po'. Sveglio, per ora, ci sto io; in seguito ci daremo il cambio...". Egli fece di no con la testa e continuò a narrarmi: "Certo l'avevano venduto ad un ottimo prez­zo... Se io avessi potuto intervenire al momento dell'acquisto, avrei sconsigliato in tutti i modi Reginald!...". Il notaio continuava e a me le sue parole giungevano un po' lontane... Avevo sonno, ma pure, che strano, ero ben abituato a far delle nottate da sveglio!...

L'orologio a pendolo appeso alla parete batté le sei e mi tolse le prime parole del notaio. "… Reginald se ne vantava. Il proprietario, ormai tanti anni fa se ne era andato con la sua unica figlia, mi pare che mi dissero che era una ragazzina malata... si, si, così mi sembra, ossessio­nata da una qualche nevrosi, o da vari disturbi psichici. Da allora tutta questa terra era rimasta abbandonata, senza più alcuna coltivazione, né alcun mezzadro che se ne occupasse. Il vecchio padrone che era origina­rio di terre lontane se ne era tornato nella sua patria. Mi pare... sì, mi pare nelle Bermuda e di questa landa desolata e della casa non aveva voluto sapere più nulla, per questo l'aveva venduta...".

Io che lo seguivo attento fui colpito dalla parola Bermuda e l'as­sociazione con la provenienza del giardiniere Bosas, balzandomi imme­diata come una scintilla, parve darmi una frustata che mi fece riavere.

Stavo per fargli notare la singolarità della cosa, quando mi accorsi che il notaio, con la testa reclinata sul cuscino, ora stava per prendere sonno. Per non addormentarmi anch'io, mi tenni dritto dritto sulla sedia. Senza un perché incollavo i miei pensieri sulle Bermuda... isole male­dette...

Intanto, con un respiro ansante, discontinuo, ad intermittenza, più pesante e più leggero, la stanchezza e la febbre del notaio si erano ab­bandonate al sonno.

Piano piano mi alzai e, cercando di spostare senza far troppo ru­more una delle poltrone presso quello strano mobile copriparete, mi or­dinai un programma: - Starò qui, affinché possa sentir bene ogni piccolo rumore proveniente dalla scala sotterranea. Però prima guarderò l'atlan­te... -

In punta di piedi andai in fondo alla stanza, ove era un'artistica scaffalatura su cui, fra gingilli vari e vasi, tempo prima avevo visto un atlante. C'era infatti! Lo presi e andai a sedermi al mio posto di guardia: - Ecco... Oceano Atlantico... Toh, le Bermuda son proprio qui di fron­te... - Guardavo fissamente quel gruppetto di isole che, parimenti, mi sembravano vicine e lontane... - Bermuda... capoluogo Hamilton... una ventina sono le più grandi... E questa? Three Flowers! (- L'isola dei tre fiori? Mai sentita prima d'ora! -).

Le Bermuda nel triangolo del diavolo, un diavolo come il mostro del castelletto? Certo erano delle Bermuda sia il giardiniere Bosas che l'antico proprietario...

...Lunghe ombre, vestite di buio, in fila indiana, avanzavano por­tando i sipari della notte...

...E il pendolo suonava le otto... le nove... mezzanotte... Il lungo batter dei dodici colpi mi ridestò all'improvviso! Mi guardai attorno, spaventatissimo, ma nulla di insolito avvertii. Solamente che mi sentivo tutte le ossa rotte, malgrado la poltrona fosse comoda. Capii che erano quei benedetti indumenti, qua e là ancora un po' umidi. Allora, badando attentamente di non far rumore, per non destare il notaio che dormiva rincantucciato, emettendo, a tratti, dei gemiti soffocati, come se avesseH incubi, e vincendo i miei mille timori, andai su in camera a prendermi una coperta. Silenzio sospetto e sospetto di un silenzio complice d'ag­guato.

La scala mi sembrò eterna: regno di ombre infide e di racca-   ; priccianti insidie. Sciendevo cauto, ma dietro e davanti... forse, qello...

Rientrando nel salone, nel chiudere la porta a chiave, feci un forte scricchiolio e il notaio sussultò... Ma io lo rassicurai: "Dorma, tra non molto la sveglio io...". Egli fece di sì con la testa e riprese sonno.

Mi tolsi la giacca tenendomi, però, la pistola, anche se era scarica e mi avvolsi più che potevo nella coperta, riprendendo l'atlante.

Infantilmente pensai che quel mare infido in cui fatalmente erano spariti navi ed aerei, avrebbe potuto inghiottire quei due misteriosi figuri, così, forse, non sarebbe mai iniziata la maledetta faccenda del castelletto... Fissavo con gli occhi stanchi la carta, immaginando percorsi, scena­ri...

...Intanto, tenebre silenti, complici e furtive, invadendo la campa­gna brulla, insinuavano dai vetri, dai muri l'agguato del sonno...

.. .Ad un tratto un colpo secco mi fece letteralmente schizzare in piedi, inciampando quasi nella coperta. Mio Dio, mi ero addormenta­to!?... Ma che era mai quel botto? Mi guardai attorno, spaventato. Nulla. Il notaio dormiva. Entrambe le porte erano chiuse e il mobile che copriva il vano aperto nel muro era lì, fermissimo, dove l'avevo lasciato. Solo l'atlante era a terra... Allora capii e sorrisi di me stesso!

Lo sollevai e raddrizzai una pagina che nel cadere si era piegata. Così con mio grande sbigottimento, se non era un'allucinazione della mia fantasia travisante, notai che a matita era scritto appena percettibilmente in calce: "N.B. Il Lupo" - Nota Bene? O..., mio Dio!, Non... Noi... Bosas!? -

Lo stomaco mi tirava spaventosamente e avevo un fortissimo mal di testa...

- Il lupo! Che lupo? Che significa N.B.? - Mi stropicciaci gli occhi, dubitando di me stesso, ma a guardar meglio rilevai che la N. di nota era chiara, ma la B di bene era molto confusa e sembrava piuttosto una F... - N.F.? - sussultai, rimuginando allarmato: - Maledizione!

Cosa vuol dire? Nota Finale? Nessuno Fuori? Non... Fare il lupo? No... Notaio! - Accigliato e perplesso fissai il divano:

-   Notaio Ferguson! Nick Ferguson? - Quelle lettere erano un pi­stone infuocato!

-   Una trivella di un motore infernale mi martella nella mente? Ma no?!... Il rumore c'è davvero! -

Feci per correre alla finestra e mi accorsi che barcollavo un po' e mi girava il capo.

La stanchezza, l'interminabile tensione, il raccapriccio e l'orrore dell'accaduto mi avevano   incredibilmente stremato!

- Sì, Dio mio! - Da lontano si evidenziava un rumore. M'arrestai: tesi l'orecchio e il rumore mi si precisò come un suono meccanico, crescente. Con un balzo fui alla finestra che spalancai.

In sottofondo si udiva il gorgogliare cupo e monotono del fiume, ma notevolmente diminuito, per come mi sembrava di capire. E sì! Quello che percepii era chiaramente il frastuono crescente di una motoretta. Irrazionalmente, incurante del pericolo mi slanciai fuori, igno­rando la voce del notaio che, destatosi di botto, con un gemito si era alzato in piedi e mi chiamava allarmato e sbalordito.

Per come le mie gambe deboli mi reggevano, tentai di correre in direzione del suono che secondo me veniva verso di noi...

Con me si era destato un mattino livido, con un cielo imbronciato in cui le nubi sembravano grosse masse di fuliggini, basse ed immobili. Ma non pioveva ed anche la nebbia si era dissipata a sud-est, tanto da permettere una certa visibilità verso levante. Mi parve anche, lo ricordo bene, di avere udito pure in lontananza dei rumori confusi e secchi e delle voci.

Mi girava vertiginosamente la testa e all'inizio del viale dei cipres­si un mulinello freddo e polveroso mi avvolse come una trottola, nelle sue spirali, togliendomi il respiro e disorientandomi per l'immediatezza del fenomeno. Indi, come succhiato da quel turbine di vento, oltre la barriera dei cipressi, calò su me, lattiginosa e pesante come un bavaglio di bambagia, un banco di nebbia, improvvisa e soffocante.

Non vidi più nulla, solo sul cuore la morsa gelata della paura: quel grumo di nebbia impensabile pareva ora un velame brumoso che avvol­geva le cose, segnando il primo fiato del mattino con tragica adeguatezza alla spettralità angosciosa del luogo... Pensai terrorizzato: - Quel demo­nio sta arrivando e mi ammazza!... - Cercai un riparo in quel tunnel di vapore...

Il terrore mi ingoiava... e il rumore cresceva cresceva...

- Oh... la testa!

 

 

 

CAPITOLO 4


Il dopo lo seppi dopo...

Il Black River, in piena, aveva danneggiato seriamente il pontile, rendendolo pericolante. Tanto che il postino che era venuto a recapitarmi un telegramma, non aveva potuto passare. Aveva avvertito i pompieri di Stockwell che avevano mandato lestamente una loro squadra per riparar­lo...

Appena era stato possibile transitare, il postino era venuto su in moto e mi aveva trovato riverso a terra, semisvenuto. Avevo perso com­pletamente l'orientamento, incappato com'ero in quel fittissimo ammasso nebbioso che sulla zona (per come poi mi spiegarono) cadeva all'improv­viso come un circoscritto blocco d'ovatta asfissiante.

Il resto poi era stato più facile, anche se io lo ricordo con qua e là delle paurose ombre. E come se non bastasse, e non fosse già stata troppo allucinante quella terribile avventura, il colpo di grazia mi fu dato dal contenuto di quel telegramma... straziante... eppur salvataggio in extremis, guidato forse dall'aldilà, dall'amore materno...

Mi comunicavano che mia madre, la mia adorata mamma, causa un attacco più forte degli altri, non era più...

Mi sembrò di impazzire, che tutto il mondo mi crollasse... non avevo ormai più che lei e, indirettamente, quella maledizione, quel gioco satanico di un fato avverso me l'avevano tolta. Sì, infatti, quel destino maligno che si chiamava Blackvalley, colpiva ancora: mia madre preoc­cupata sempre com'era per me, in mia assenza, era andata a frugare tra le mie carte ed aveva trovato copia della lettera del pastore Brown. Per lei venire a sapere la verità sulla nascita di Selenya era stato fatale...

Io ero caduto in uno stato di depressione massima, senza più spe­ranza, senza più voglia di vivere. Trascuravo il lavoro ed ogni amicizia, solo con il mio dolore che aveva due nomi, due volti e tutto il mio bisogno d'amore: mamma e Selenya.

Il notaio, quando si rimise e non fu presto, perché la ferita si era infettata (anche se era solo superficiale), mi venne spesso a trovare.

Appena gli fu fisicamente possibile, mi annunciò che partiva per la Grecia, alla ricerca della più disperata delle piste, per ritrovar Selenya e... non me lo diceva, ma io glielo leggevo in quei suoi occhi inquieti, taglienti come una lama, nell'assurdo, disperato tentativo di ritrovare anche una morta... !

Sì, Selenya e Theanò, un amore con due volti quasi identici che per lui erano ormai l'unica ragione della sua vita... Mi giurò che, se non avesse saputo qualcosa, finché non avesse trovato quella località, Knopulis, che non si ritrovava su nessuna carta geografica, e il misterioso Podere Polissena, non sarebbe ritornato.

Io lo ascoltai e, dentro di me in cui non era che impotente dispe­razione, nacque quasi un senso d'invidia e... di vergogna e rimorso per avere per un attimo arzigogolato sul suo nome con sospetto.

Beato lui che aveva ancora la forza di sperare, di tentare. Io, in­vece, non sapevo che odiare, odiare follemente quel mostro che aveva distrutto in pieno la mia vita e tutti i miei affetti più cari, più vivi. Naturalmente, nello stato d'animo del momento, altalenante tra una totale abulia e una disperazione esasperata, non tornai immediatamente al castelletto. Più tardi lo fece il notaio con la Polizia, perlustrando il cunicolo da noi non percorso: fu constata, così, l'aderenza alla realtà della nostra ipotesi, poiché quel condotto portava direttamente dal muli­no al capannino, fuori in campagna. Con ciò era chiaro come il misterio­so frequentatore del sotterraneo avesse massima facilità di movimento e di fuga. Inoltre, fu forzato il cassetto del comò che noi non eravamo riusciti ad aprire e, con grande sorpresa e commozione del notaio, vi fa trovato dentro il bellissimo vestito di raso bianco, di foggia greca che si pensava fosse stato fatto indossare a Theanò per l'ultimo sonno... L'orlo dell'abito che, per come era scritto nel biglietto, avrebbe dovuto conte­nere i famigerati diamanti, era, invece, vuoto ed intatto... Ciò, da un lato, disorientò il notaio, ma dall'altro gli accese nel cuore ancora un minu­scolo fiammifero di speranza.

Naturalmente la Polizia, informata da noi su tutta questa allucinan­te storia e di fronte alla ferita del notaio e alla verifica del cunicolo esistente sotto il castelletto, nonché della ormai visibile apertura nel muro del salone, non potè più archiviare le indagini e asserire che io fossi pazzo. Sicché fui a lungo interrogato su quanto era avvenuto.

In più, proprio lo stesso giorno del recupero della macchina del notaio, a Stockwell, e precisamente il giorno dopo che fummo ritrovati io e il notaio, fu rinvenuto cadavere il campanaro della chiesa principale di Stockwell, un certo Jeremy Tigh.

Si seppe anche che costui era ebreo in origine, ma chissà come e perché si era poi fatto battezzare col rito della chiesa Battista. Anch'egli, stranamente originario delle Bermuda, era stato più volte visto baruffare in maniera assai violenta con il giardiniere del castelletto, Hander Bosas. Non si sapeva quali fossero le forti ragioni di contrasto dei due, anche perché il campanaro era assai più giovane del giardiniere: probabilmente era vecchia raggine di quando Jeremy Tigh era marinaio.

Solamente, pochi giorni prima che fosse stato trovato impiccato alla corda delle campane, atrocemente frustato, si seppe che era andato dalParmaiolo di Soldlake, Kevin Ross, a comprare un'arma. Diceva che era stufo di sentirsi ricattare e tormentare per certa - roba - che lui non aveva e che voleva farla finita.

Il Ross testimoniò che egli, avendo udito quanto il campanaro diceva nel suo negozio, era intervenuto, minacciando Jeremy di non vendergli l'arma se non avesse smesso di dire e pensare sciocchezze assurde. Ma poi, poiché il campanaro aveva un regolare porto d'armi, non aveva potuto non vendergliela. Anzi, per la verità, si era preoccupato poco o niente, sapendo che il giovane che conosceva benissimo, avendo­gli trovato lui stesso dei lavoretti subito dopo lo sbarco, era una testa balzana, alla Don Chisciotte. Poi, da quando era diventato battista, si dava arie di essere assai devoto e praticante, amico di tutti che conside­rava fratelli in fede: un idealista romantico. Ma, purtroppo, forse quello che diceva era vero: però, ad uccidere non era stato lui, bensì proprio lui era stato barbaramente assassinato, impiccato, dopo un brutale picchiaggio, alle corde delle sue campane.

L'arma vendutagli da Kevin Ross fu cercata dappertutto, ma non se ne trovò traccia. Forse l'aveva presa l'assassino. Ma chi era questo misterioso, crudele figuro che aveva commesso il crimine?

La Polizia pensava che potesse essere quel demente che si nascon­deva al castelletto: avvalorava quest'ipotesi il fatto che la macchina del notaio, rubata dallo sconosciuto, era stata ritrovata nelle immediate vici­nanze della chiesa, sporca di sangue, proprio quando era stato scoperto il cadavere del campanaro.

"Ora che c'entrava mai questo campanaro?!..." ci scervellavamo.

A me e al notaio quest'altra maledetta coincidenza, se coincidenza era, non faceva altro che aumentare gli incubi e ingarbugliare le idee.

Tuttavia riferimmo al commissario Peter Heart, del commissariato di Soldlake nel cui distretto rientrava la cittadina di Stockwell e quindi la località di Blackvalley, che, in quei drammatici momenti, al capanno prima, e al castelletto, poi, avevamo udito uno strano suono di campane, certamente mosse disordinatamente e non con l'intenzione di effettuare un normale scampanio, tanto più che era quasi notte. Ciò, se da un lato poteva far pensare che il suono scomposto era stato prodotto al momento dell'impiccagione, non giustificava affatto come il medesimo rintoccare a colpi staccati, per così dire sospetto ed anomalo, si fosse ripetuto a distanza di tempo. E poi, la macchina era stata rubata successivamente al momento in cui per primi erano stati uditi quei lugubri tocchi!...

Era un vero rompicapo, in cui l'unica cosa che combaciava era il momento del decesso del giovane Tigh che fu stabilito risalire intorno a quella tarda indimenticabile nottata... Pertanto questa notizia, d'altra parte confermata da parecchi in paese che avevano udito lo strano suono, non arrecò alcun giovamento alle indagini.

Invece, secondo il sergente Parker, era cosa della massima impor­tanza la testimonianza del notaio: questi diceva di aver sentito personal­mente e di aver saputo anche la medesima cosa da Theanò Kefrai, che il vecchio giardiniere aveva avuto con il padrone, Reginald Kefrai, vio­lentissime discussioni per certi diamanti datigli da un ebreo.

Però, ciò malgrado, le indagini non approdarono a nulla, anche perché gli agenti del commissario Heart, che certo non brillavano per zelo e acume investigativo, non riuscirono a trovare né bossoli né pro­iettili, sparati verso di noi in quell'orribile notte di caccia all'uomo.

Su ciò noi insistevamo moltissimo, sperando così di confermare l'ipotesi che i colpi erano stati sparati proprio dall'arma venduta da Kevin Ross e probabilmente rubata dall'assassino.

L'uomo del cunicolo del castelletto, forse il rapitore e il carceriere di Selenya e forse anche l'assassino del campanaro, Jeremy Tigh, era irritrovabile, come dissolto nel nulla. E non servì che il notaio avesse dichiarato che metteva in dubbio l'esattezza delle sue stesse affermazioni inerenti l'identificazione del cadavere, trovato annegato nell'ansa del Black River! Certamente, in buona fede, l'annegato gli era sembrato quel tale Hander Bosas, giardiniere dei Kefrai al castelletto, che egli ben conosceva. Ma il riconoscimento era avvenuto taluni giorni dopo, già in incipiente decomposizione. E inoltre, le circostanze vissute in prima persona e quelle da me narrate, gli avevano fatto dubitare sull'esattezza delle dichiarazioni medesime. Si era forse sbagliato, poiché quell'essere folle e sanguinario che si aggirava al castelletto aveva tutte le caratteristi­che di Hander Bosas, come la risata demenziale e la perfetta conoscenza dei sotterranei di Blackvalley, nel triangolo: mulino-capanno-castelletto.

Furono inviate, come di dovere, a tutte le questure dello stato le generalità e i dati somatici del vecchio, avvertendo che poteva essere assai pericoloso e forse ferito, nonché che poteva avere seco una ragazza di circa ventidue anni. Ma anche questa pista cadde nel nulla: sembrava che quel dannato avesse avuto il dono dell'irritrovabilità, di scomparire chissà dove, chissà come, senza lasciar traccia alcuna. Così, come era per lui, parimenti riusciva a fare per le sue vittime. Sì, infatti, anche di Selenya non si riusciva ad avere il più piccolo indizio, su dove potesse essere andata a finire e quale mai orribile sorte avesse avuto.

Io passavo ormai le giornate nel più totale stato di scoramento, divorato dal mio tormento, dalla mia solitudine... In più il notaio era partito anch'egli per un'impresa disperata, in Grecia. Anche le sue tele­fonate, frequentissime, non facevano che aumentare la mia amarezza e il mio sconforto... Ero rimasto con l'unico intento di seguire e proseguire le affannose ricerche di Selenya e di quel miserabile in loco, ma qui tutto era stagnante, senza il più piccolo indizio che desse speranze. Per questo mi sentivo inutile e impotente...

Poi finalmente un giorno mi giunse una telefonata assai breve e un

po' strana, in verità, del notaio che, tutto eccitato e con fare contento e misterioso, mi comunicava di essere riuscito a sapere che Knopulis era il vecchio nome, ormai da più di un secolo abbandonato, della cittadina di Mirakys, nella località a nord-est di Kaphos, sull'Egeo.

Mi diceva inoltre di dover essere estremamente cauto perché teme­va un qualcosa ed un qualcuno che non mi volle precisare e che, comun­que, mi avrebbe fatto sapere. Infatti di lì ad una settimana mi giunse un telegramma quanto mai enigmatico, proveniente da Kaphos. Vi era scrit­to: - Ottimo! Ad maiora! Comunicherotti mirabilia. Ti perverrà lettera da me od altri -,

Ero rimasto strabiliato, ma non riuscivo a rallegrarmi, per come si poteva dedurre dal telegramma, di un qualcosa che non sapevo e di cui, ahimè, non avevo speranza. Infatti, sarebbe stato ben illusorio dell'otti­mismo...

Mi aveva detto che sarebbe immediatamente partito per quel posto e ciò lo si deduceva dal successivo telegramma, ma purtroppo questi dovevano essere gli ultimi suoi messaggi... Ancora un nodo nero di dolore, di mistero doveva legarmi senza possibilità di scampo a questo terribile dramma della mia vita! Ancora adesso lo vivo senza soluzione, sorretto unicamente dal filo più disperato di una speranza che non vuole arrendersi...

Ma questo nuovo tragico capitolo della storia lo seppi dopo, dopo... precisamente quando ero già alle Bermuda...

Sì, infatti una cosa continuava a mulinarmi nella testa come un'eli­ca di fuoco. Di colà era originario il giardiniere ed anche delle Bermuda era il campanaro, Jeremy Tigh. Ma non bastava! Il notaio mi aveva detto in quel terribile giorno di nebbia, quand'eravamo prigionieri al castelletto, che anche di quelle ìsole lontane pareva fosse l'antico pro­prietario di Blackvalley. Ne avevo parlato al commissario Heart e al sergente Parker, ma ad entrambi la cosa sembrava una semplice coinci­denza. Adirato e stupefatto per la loro ottusità, mi rendevo conto di non poter contare su una polizia efficiente.

Comunque, per quel che riguardava il Bosas e il Tigh, si era sa­puto, si conoscevano da tempo e non avevano reciproci ottimi rapporti, Nulla portava ad escludere, senza poterne trarre precise ragioni del delitto, che, precedentemente, i due si fossero contattati giustappunto per­ché erano entrambi nativi dello stesso luogo.

Tuttavia, malgrado le conclusioni superficiali della polizia, io ero deciso a non trascurare alcuna pista e per questo mi diedi a scartabellare negli uffici catastali della zona per trovare traccia di quel trapasso di proprietà.

La ricerca fu veramente complessa, poiché tutte le compravendite anteriori ai tre lustri venivano archiviate in altri settori catastali. Per me, che non conoscevo l'anno, fu un rompicapo, in quanto non sapevo su quale archivio indirizzarmi. Ma alla fine, accidentalmente, scoprii le carte giuste e qui la mia sorpresa fu davvero enorme!... Da quei vecchi documenti risultava che Reginald Kefrai avesse acquistato il castelletto e la dependance del mulino, nonché il terreno circostante, da un certo Silver Bosas. "Sì, sì, un certo Silver Bosas! Silver Bosas!", mi continua­vo a ripetere, per come si diceva in Stockwell, originario, pareva, delle Bermuda... Bosas, anch'egli! E a me quel nome accendeva dentro un inferno di dubbi, d'accuse, forse immotivate, ma che mi facevano bran­colare nel buio. Parevano tutti filamenti di una maledetta tela di ragno!

A Stockwell e negli immediati dintorni, non mi si seppe dire nulla di più di quanto non conoscessi, sicché il personaggio per me era solo un nome, un luogo di provenienza, neanche a farlo apposta, gli stessi di colui che tanto odiavo.

 

 

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