Parte seconda – SELENYA

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CAPITOLO 1

 

 

Dopo... solo molto dopo, seppi dell'incidente. Anzi dello strano -incidente - dell'auto pirata che non solo non si era fermata per il soccor­so, ma che, per la dinamica dello scontro pareva aver voluto dolosamente procurare il terribile impatto che per pura fortuna non mi era costato la vita. Insomma qualcuno, e non riesco ad immaginare chi, aveva tentato di uccidermi forse...

Iniziai a riavermi dopo parecchie settimane passate tra la vita e la morte, poiché ero caduto in un terribile coma che aveva fatto disperare tutti sulla mia possibilità di farcela.

Di lì a diverso tempo, la polizia mi interrogò ripetutamente, chie­dendomi se individuavo qualcuno, interessato alla mia fine. Ma in tutta coscienza non seppi che dire.

Intanto mia madre era venuta ad assistermi, malgrado le sue non buone condizioni di salute, ancora una volta provata da una notizia per lei così sconvolgente.

Appena i medici mi dichiararono fuori pericolo, vedendo l'inizio di una lenta convalescenza, permisero a mia madre, con la massima cautela, di raccontarmi i dolorosi eventi di quegli ultimi mesi. Così ap­presi che Selenya era fuggita di casa, in quella lontana sera di pioggia in cui era sola con la mamma ed era poi stata ritrovata al castelletto dove io le avevo parlato.

Lo stato di salute di mia cugina, per il tempo vissuto al castelletto, si era aggravato sempre più. Tuttavia, sembrava giorno per giorno accen­dersi di una sua interiore identità, o pseudoidentità, che la rendeva sem­pre più bella. E guai a dirle di andar via da quel luogo: aveva delle forti crisi di pianto e rifiutava cibo e medicine, ripetendo ossessivamente che lì doveva trovare, mediante la via del terzo fiore, la sua origine, la parte più importante di sé stessa. Queste cose, ricordavo, aveva detto anche a me per telefono quella sera in cui credevo fossero già tutti nella casa del cugino Reginald. Invece si era rifugiata colà lei sola, approfittando del­l'assenza dei genitori: non sapremo mai come, poiché sulla zona imper­versava un tremendo temporale! Lei non aveva mai voluto dire nulla. A me non restava che pensare che qualcuno ve l'avesse accompagnata, poiché da sola le era pressoché impossibile, dato il tempo, la lontananza e il sopraggiungere della notte tempestosa.

Il giorno dopo i genitori e mia madre l'avevano ritrovata a Blackvalley, nel castelletto dei Kefirai, felice nella sua illusoria realtà e nella sua malata incoscienza. Chiusa nel circuito ossessivo e imperscru­tabile del suo male, continuava a ripetere che la Voce la chiamava (ma chi era poi questa voce?), affinché ritrovasse un'immaginaria essenza femminile che le aveva dato la vita.

Così passava le giornate, bellissima prigioniera di se stessa o meglio dell'oscura tarma che le rodeva il cervello, o nel prato, o nel mulino, o nel viale dei cipressi, o presso lo strano apparente mobile, per cercare "il terzo fiore".

Talvolta invece si recava, seguita a vista dallo zio Martin, nella campagna brulla retrostante la casa. Arrivava lì, ove riaffiorava il bosco e vi era una vecchia capanna abbandonata, forse per gli attrezzi, che col suo profilo sghembo, col tetto cadente dava ancor più una nota di tetraggine a quella squallida distesa di terreno qua e là punteggiata da alberi tisici...

Poi un giorno, misteriosamente, sparì!... Era il 21 marzo: il giorno del suo compleanno!

La povera zia Meg non si dava pace e trascorreva giorno e notte nel vano tentativo di trovarla, cercando, frugando, chiedendo dappertutto, bussando casa per casa.

Così tutti a Stockwell seppero della sparizione di Selenya e anche la polizia fece ampie battute con un vasto spiegamento di uomini e di cani. Ma la ragazza pareva essersi volatilizzata! E proprio in quel parti­colare giorno (una tragica coincidenza?)

Poi, passato neanche un mese, avvenne la tragedia. Una notte di luna piena la povera zia Meg che non riusciva a dormire ebbe l'impressione che, oltre il viale dei cipressi, verso il mu­lino, si udisse vagamente un canto che a lei sembrò di Selenya. In verità anche mia madre quella notte mi disse di essere stata svegliata, quando il vecchio orologio del salone batteva le tre, da qualcosa di lontano e d'indistinto, ma pur vagamente familiare. Ascoltando attentamente, le era sembrato di udire un canto e la voce, pur solo un'eco portata dal vento, le era parsa quella della nipote, così tipica in quelle tonalità tanto acute e dolenti. Allora, preoccupata, come per un inconscio presentimento, si era recata nella camera della sorella, avendo però la brutta sorpresa di non trovarla a letto. La stanza era vuota e la finestra e la porta spalan­cate...

Mia madre, spaventata, aveva chiamato il cognato e assieme alla cuoca e alla cameriera l'avevano cercata dappertutto.

Zia Meg era andata al mulino e chissà perché era scesa dalla lunga scalinata tanto infida e pericolosa, forse dopo essere stata a cercar la figlia nelle stanze superiori. Purtroppo per lei (e la cosa era davvero inspiegabile) si era mantenuta dalla parte ove non c'era né parete né ringhiera. Così, non si sa bene se per un improvviso mancamento o per aver inciampato in qualcosa, o... (la mia fantasia immaginava oscure presenze) per essere stata spinta da chissà chi e chissà perché, era caduta nel vuoto, sfracellandosi.

La trovarono colà, agonizzante che ripeteva farfugliando con l'ul­timo fiato di vita: "Selenya ha aperto il terzo fiore ed è andata a trovar sua madre...".

Allora, né io, né tanto meno mia madre, demmo alcun peso a quelle strane parole, per noi fantasie di un'anima già sulla soglia del passaggio, disperato delirio di una morente, straziata, pur già nell'agonia, dal ricordo della figlia.

Ma in appresso, quando, come in un mosaico, mi si ricongiunsero tutti i tasselli, ben capii quello che la zia voleva dire, in quell'ultimo barlume di coscienza.

La morte della sorella, a mia madre tanto cara, era stata per lei un colpo terribile che in un certo qual modo acutizzava e rievocava la per­dita di mio padre, di cui mia madre non si era mai consolata.

In questo dolente stato d'animo e in precarie condizioni fisiche, venne ad abitare con me, cercando di cancellare totalmente il ricordo della casa dei Kefrai. Persino della cugina Selenya non si parlava mai, anche se queir inspiegabile scomparsa, a cui neanche la polizia aveva saputo dar spiegazione, restava fra di noi come una voragine di domande e di paure che davano angoscia.

Io che giorno per giorno scoprivo in me una tenerezza nuova per mia cugina, pur così tanto più giovane di me, invece, continuavo in silenzio a torturarmi, con mille spasmodici perché. Seguivo le più sva­riate piste immaginarie, tenendomi segretamente in corrispondenza con lo zio Martin che era rimasto al castelletto, nel disperato, ma ahimè vano tentativo di ritrovare Selenya che egli continuava a sentire viva e presen­te nella squallida solitudine del posto. Egli infatti non si era voluto stac­care da quei luoghi in cui il ricordo della moglie e della figlia era per lui ormai l'unica larvata ragione di vita.

Io potei andare sul posto solamente due volte e sempre di nascosto di mia madre che, apprensiva com'era, stava male non appena mi sapeva lontano; quindi potei fermarmi colà solo brevissimi periodi.

Anch'io ero ossessionato dal ricordo struggente di Selenya che nella mia memoria, invece di sbiadire, stranamente acquistava sempre più una vivezza di ricordo e una consistenza di struggente tenerezza. Me la vedevo dinanzi, lei così diversa dalle ragazze del luogo, con quella strana bellezza bruna di statua classica, con quel visino dolcissimo, ma sempre tanto triste ed assente, con la piccola bocca senza sorriso appena un po' rosata, ma stretta quasi da un sigillo interiore o da un represso scoppio di pianto; sì, era sempre nei miei pensieri Selenya, limpida ed enigmatica, rara come quello strano nome che gli zii dicevano fosse stato voluto ostinatamente dall'ostetrica.

Lei: con quegli occhi cupi ed immensi quasi sempre persi in un buio dell'anima che, inaspettatamente, e solo per pochi attimi, s'avvivano di una luce magica ed intensa che li faceva brillare come per un luccichio di lacrima. Allora, non più sepolcrale statua greca, il viso le diveniva bellissimo, appassionato ed ardente come per un segreto fuoco di passionalità repressa...

Mi stupivo con me stesso della persecuzione di quest'immagine improvvisamente a me tanto cara e mi rifiutavo, con la parte razionale di me, di darmene una spiegazione.

Ogni volta che ero andato al castelletto, erano state delle ore di ricerca spasmodica di ogni indizio, anche del più piccolo particolare. Ma nulla! Solo, più volte, quando il vento fischiava forte tra i rami dei cipressi, facendo lugubre girandola attorno alle pale del mulino, e la cosa era davvero assai frequente sulla selvaggia pianura di Blackvalley, si percepiva qualcosa... Sì, mi era sembrato di udire, confusa tra i sibili di tramontana, che colà soffiava anche d'estate, una risata satanica, lunga e strascinata in un ansimare sempre più acuto. Assieme a quel riso mi pareva di percepire, proveniente da lontananze infinite, per uno strano ripetersi di giochi d'eco, un lamento, un'invocazione...

Ero corso al mulino, frugando come un pazzo ogni dove... Mi ero inoltrato nel bosco... Uscendo dal retro della casa, lì dove la campagna si apriva piatta e squallida per una larga distesa, dov'era il capanno abbandonato, avevo portato le mie febbrili ricerche... Nulla, nulla in nessun posto! Mi dicevo che era solo la mia smania e il nervosismo di una ricerca senza risultati... Eppure (e ne ero ben sicuro) sull'apice della scala da cui era caduta la zia Meg, avevo netta l'impressione di udire lo strano richiamo dolente e la stessa folle risata ripetersi dalla parte oppo­sta, cioè dalla torretta più alta del castelletto su cui il vento ululava la sua vittoria, ossessivamente. Ciò mi dava la consapevolezza mentale che era tutto un fantastico gioco di suoni e di echi dilatati e moltiplicati dalle mille code del vento che evidentemente in quel luogo così impervio trovavano fortunose risonanze.

Tuttavia, ancora una cosa mi lasciava assai impressionato: sin dalla prima volta che ero stato a visitare le stanze del mulino avevo percepito quello strano odore dolciastro, di cui mi aveva parlato mia madre... Però la cosa non era avvenuta sempre e ciò era ancora più anomalo, poiché voleva dire che non era quello un odore intrinseco alle stanze stesse, magari originato da muffe o da chissà qual'altra esalazione delle mura o del terreno. Io non ero mai riuscito a capire da cosa fosse prodotto: pareva quasi causato dalla permanenza in quei locali, già altresì così tanto ventilati e ormai sempre disabitati, di qualcuno o qualcosa che ne era pregno.

Rivelai la mia scoperta allo zio Martin e anch'egli, con mia grande sorpresa, mi disse di aver avvertito tante volte quell'odore misterioso e intermittente... Lo aveva sentito anche quando avevano ritrovato la zia moribonda ai piedi della scala, quasi che accanto a lei fosse stata una presenza che lo emanava!...

Anzi, mi confidò anche che in quella terribile notte egli aveva udito distintamente qualcuno vicinissimo, forse occultato tra i cipressi, che rideva di un riso da pazzo, acuto e insieme roco e strozzato, ma tagliente come un coltello che sbrana la notte... No, non dormiva, non era stato un sogno, lo ricordava bene e ricordava anche che in lontanan­za, nel salone, aveva sentito il vecchio orologio battere le tre... Ma, ahimè, non aveva visto nessuno...!

Ed anche la cameriera e la cuoca asserivano di aver sentito qualche volta, di notte, quella specie di ululante risata... Anzi, Rosy, pratica del luogo, diceva che tutti a Stockwell sapevano che quello che sghignazza­va era lo spirito perverso di Hander, il vecchio giardiniere, pazzo e alcolizzato, morto annegato misteriosamente nel Black River. Si mormo­rava che quando soffiava il vento di tramontana, egli, da morto, per come faceva parimenti da vivo, ricordava il mare che per tanti anni era stato il suo elemento vitale, emettendo quella lugubre risata di eccitato trionfo sulle forze della natura...

 

 

 

 

CAPITOLO 2

Così passò circa un anno da quando ero uscito dall'ospedale e di Selenya mai nessuna notizia, come se fosse stata sommersa nel ventre di quella terra brulla e selvaggia, prigioniera di quei cipressi, lugubri sacer­doti delle bufere del vento, che stranamente Selenya amava tanto, forse per la loro cupa maestosità.

Ma ecco la tremenda notizia: una mattina lo zio Martin fu trovato morto, forse per un improvviso arresto cardiaco, mentre aveva passato chissà perché tutta la notte accanto al caminetto.

La cameriera lo trovò a terra nel salone, vicino a quello stranissi­mo "mobile" di cui nessuno (e neanche io che lo avevo studiato così tanto attentamente) aveva capito la funzione e il modo d'uso.

La notizia mi colpì come una coltellata alle spalle e sentii distin­tamente che quelle due morti, della zia e dello zio, apparentemente così diverse e accidentali, avevano una loro comune chiave di lettura, un misterioso circuito che, legandole l'una all'altra, le congiungeva all'as­surda sparizione di Selenya. Un allucinante qualcosa che io non sapevo e non capivo, ma che pur tuttavia era fattore ricorrente e causale inspie­gabile, legato a quella casa maledetta, mi diceva dentro che era lì che bisognava indagare capillarmente, se non ci si voleva arrendere. Ed io non ero uomo da resa, alieno da facili credenze di occulte presenze e di irrimediabili fatalità.

Per mia madre, già tanto provata fisicamente e moralmente, quello fu un altro colpo mancino che la chiuse sempre più in una specie di terrorizzata fobia verso l'eredità del cugino Reginald e verso ogni mia anche più piccola assenza, temendo sempre che potesse capitare qualco­sa. Io, però, malgrado le sue spaventate suppliche di dimenticare totalmente anche il più piccolo legame con quella infausta proprietà, decisi di andarvi, apparentemente per rendere l'estremo saluto allo zio, ma in realtà per quello spasimo interiore che mi tormentava sempre più di trovare Selenya e di scoprire il mistero del castelletto.

Tuttavia, colà, tutto si presentò con il suo solito aspetto di cupa usualità, con il suo solito scenario di una campagna assurda che sembra­va incapace di produrre una qualsiasi vegetazione amena, eccezion fatta che per quei giganteschi cipressi e per gli alberi del bosco che sembra­vano posti non certo per abbellire con la loro selvaggia asperità, bensì per creare una barriera.

Cercai dappertutto un qualcosa d'indiziario o perlomeno anomalo...

Cercai e ricercai quel quadro e quel disegno di cui mia madre mi aveva scritto. Ma nulla! Nulla dì nulla!... Ed anche il - mobile - intar­siato che, come un sarcofago, sigillava in se stesso i suoi segreti, era per me un assurdo, snervante rompicapo: un ammasso ligneo stretto e lungo, dalla pregevolissima e machiavellica fattura, che ricopriva sino al soffitto la parete, con una sporgenza di circa 40 cm.; era costituito nelle fiancate e nella parte anteriore da un blocco unico di legno, o almeno così pareva, senza la più piccola fessura che potesse far intuire una qualche apertura o pannello di scorrimento.

Tuttavia, dopo il funerale dello zio che aveva lasciato scritto di voler essere seppellito accanto alla zia, nel piccolo cimitero di Stockwell, non distante dal castelletto, decisi di fermarmi qualche giorno per tentare in tutti i modi di scoprire qualcosa.

La mia curiosità era poi stata acutizzata da una dichiarazione del notaio Ferguson che mi aveva asserito di non aver mai notato aperto quell'arredo nel salone del caminetto, dove lui, il cugino Reginald, sua moglie e pochi altri intimi solevano spesso riunirsi. Anzi mi aveva detto che gli sembrava di ricordare di averne chiesto notizia all'amico Kefrai. Questi, con malcelato imbarazzo, gli aveva risposto che questo era solo "un mutile ricordo degli antichi proprietari del fabbricato, di nessun valore e nessuna importanza". Stupivano pure le dichiarazioni della ca­meriera e della cuoca che giuravano di aver visto sempre in quel posto il mobile, addirittura anche quando pareva esser stato dall'antiquario per il restauro. Loro non l'avevano visto mai aperto. Era curato con massima attenzione per la pulizia e la riverniciatura dal signor Kefrai e dal giar­diniere Hander, i quali non permettevano loro neanche di presenziare durante queste attività. Inutile dire inoltre che io non fui mai in grado di sapere chi fosse il misterioso antiquario che con tanto zelo aveva telefo­nato a mia madre di essersi occupato del restauro e di voler far rimettere al suo posto il prezioso mobile dal suo personale specializzato, senza poi aver mai chiesto per tale opera di ripristino a nuovo e di consegna, compenso alcuno.

Così, quella sera mi feci servire qualcosa di leggero nel salone e ordinai alla servitù di ritirarsi presto in camera. Mi sentivo tesissimo e, devo confessarlo, con un'angoscia interiore che non riuscivo a spiegarmi. A ciò contribuiva il tempo, un orrido tempo da lupi, in cui dal cielo parevano essersi scatenati i torrenti più tempestosi che sommergevano ogni cosa in un diluvio di pioggia flagellante. Su quelle mura così spesse, su quelle finestre strette e lunghe il ticchettio furibondo della pioggia acquistava una sua cupa sonorità che sembrava penetrare ossessivamente, violentando il silenzio con una sarabanda di tonfi, di crepitii, di fruscii e di mille altre sonorità subdole ed ambigue.

La notte, quella notte nera come la pece, era dilaniata dai vorticosi scrosci di uno dei più tremendi acquazzoni estivi a cui avevo assistito nella mia vita, sotto la sferza dilaniante del vento che scagliava mulinelli d'acqua e un flagello d'aria sui vetri, con un rimbombo cupo e sibilante: sembrava che tutte le divinità infernali si fossero rideste per una apoca­littica comparsa ed affermazione del loro potere!...

In lontananza prima, e poi sempre più vicini, tuoni enormi rotola­vano, come giganteschi macigni, sul bosco, sul fiume, sulla casa stessa che tremava dalle fondamenta. Ma il cielo nerissimo non s'accendeva, per quanto a me era dato a vedere, dei bagliori improvvisi dei fulmini, quasi che quelle frecce di luce rifiutassero l'orrido di quella infernale tempesta.

Mi domandavo in quale luogo impervio, dal clima tanto insalubre e tempestoso, il cugino Reginald fosse andato a prendersi quell'assurda casa... Non riuscivo a capire, tanto più che sapevo che egli aveva una notevole agiatezza economica. Certamente era ben spiegabile come la povera cugina Theanò, in quel posto così malsano e inospitale, tiranneg­giato dal vento e dalle tempeste, avesse trovato morte malgrado la gio­vane età, lei che era abituata al sole, al mare, ai profumi del suo Medi­terranea!

Faticavo a mangiare e ad un tratto un tuono ciclopico si scaricò sulla casa, dandomi l'impressione che l'avesse annientata e che tutto stesse per crollare. Un sasso colpì un vetro. Senza un perché mi precipitai alla finestra e la spalancai. In quell'attimo la luce si spense ed io fui in quel frastuono, in quella sarabanda di suoni spaventosi, come un fuscello, totalmente piegato dalla furia di quella natura che in quella notte pareva al servizio dell'occulto, anzi, del satanico. Confesso che mi prese un panico che mi serrò la gola e tentai, lottando con la furia del vento, di chiudere la finestra. Furono attimi che mi sembrarono secoli, ma ecco che tornò la luce e la finestra si richiuse... Finalmente! Ritornai presso il camino e... Mi colpì come una frustata l'odore che adesso giaceva nella stanza: era quello stesso lezzo dolciastro, molle e un po' guasto che avevo già sentito altre volte e che non ero mai riuscito a spiegarmi. E sì che dalla finestra spalancata non poteva essere entrato! Per come avevo avvertito distintamente quand'ero presso i vetri, da fuori proveniva unicamente l'odore acre di terra bagnata e l'umidore della pioggia! Mi guardai attorno, perciò, assai stupito e, poi, velocissimo, corsi alla porta, aprendola di botto! Nessuno... Tuttavia quella zaffata era lì, inspiegabile e pur persistente... Mi sentivo chiuso come in una trappola d'ignoto che non era solo il turbine della tempesta al di fuori, ma piuttosto quel serpeggiante brivido d'indecifrabile mistero che sem­brava rivelarsi solo quel tanto che servisse ad esasperare la mia tensione nervosa.

Sempre più agitato mi accostai al brodo che era nella zuppiera. Lo annusai. Il filo di profumo che esalava era il solito normalissimo odore che fa un qualsiasi brodo... Odorai anche tutte le altre vivande e in particolare il boccale di birra. Ma niente! Anzi, ora che annusavo dap­pertutto, come un segugio, mi pareva che quel lezzo non vi fosse quasi più, o che perlomeno le mie narici non riuscissero più a percepirlo. Ero strabiliato e cominciai a dire a me stesso che forse quella strana sensa­zione olfattiva era solo frutto della mia esaltata immaginazione, al momento particolarmente stressata. Scontento e nervoso, mi riempii il bic­chiere di birra che mi sembrò assai gradevole e dissetante. Così, me ne versai un altro bicchiere, che avevo la gola tanto secca e chiusa... e poi un altro...

La testa mi girava un po', tuttavia mi misi di buona lena a scrutare il famigerato mobile, cercando in quei geroglifici l'insorgenza in me di un'idea, di uno spunto, di una pista...

Ricordo che volevo alzarmi ma mi sentivo le gambe pesanti e la gola sempre più arsa... Mi versai ancora da bere, tanto da finire tutto il gran boccale di birra. Ricordo anche che con gran fatica mi portai sul divanetto, posto sulla parete laterale del caminetto, dove si sarebbe po­tuto godere meglio il calduccio del fuoco che avevo intenzione di accen­dere, malgrado fossimo quasi in estate, per scaldare l'ambiente.

Pioveva sempre e il frastuono della pioggia era tale che mi sem­brava di essere immerso in un'assurda cassa di risonanza. Il mio cervello frastornato era assai stanco e mi pulsava ossessivamente il ricordo che proprio lì era stato trovato, riverso a terra, il povero zio Martin. Intanto la luce che spariva e tornava con ritmica intermittenza, a me sembrava si attutisse d'intensità e prendesse dei toni azzurrognoli... Poi... Poi...

 

 

CAPITOLO 3

La vidi...

Sì, era proprio lei, Selenya, anche se pallidissima e vestita in una foggia assai strana: indossava infatti una splendida veste rossa fiammante tutta ricamata in oro, lunga sino a terra. I piedi erano nudi e la stola ampia drappeggiata su una spalla, con un fascino eccitante e misterioso. La figura, esile nell'estrosità del peplo, appariva più alta e, perdendo un po' quella sua tipica grazia di gazzella spaurita, acquistava invece una conturbanza sottile di donna. Una spalla bianchissima era nuda e sul braccio, anch'esso nudo, si notava un enorme bracciale a forma di scudo su cui era una figura femminile tempestata di brillanti. L'altra spalla, invece, era coperta dalla stola che le faceva da vestito ed era fermata in alto da una grossa spilla che ripeteva la figura del bracciale, solo che qui il brillante era uno solo, enorme e lucentissimo, come un polo catari­frangente. Non avevo mai visto mia cugina così bella e conturbante: stranamente eccitava i sensi, suscitando palpiti di voluttà e insieme inte­neriva l'anima con un tumulto di sensazioni affettive per quella sua espressione così tormentata e dolente. La guardavo rapito ed in preda ad una emozione violentissima. Avrei voluto gridare e stringerla tra le brac­cia ed urlarle quanto fosse preziosa per me, ora che per la prima volta me ne ero reso conto. Ma, purtroppo, la mia gola era chiusa in una morsa di ferro che mi impediva di far uscire alcun suono! Ed anche le mie braccia e le mie mani erano incapaci di muoversi, come paralizzate...

Ella mi guardava con quei grandi occhi colmi di un dolore senza fine e pur tuttavia languidi e appassionati. Come in trance, riuscii final­mente a mormorare: "Selenya, oh, Selenya...".

Ella fece di sì con la testa, ripetutamente, con la furia infantile di una bambina che si vuole far riconoscere. I lunghi capelli corvini, ricci e lucenti, che erano fermati sulla nuca da un pettine, le si sciolsero giù per le spalle e l'avvolsero come una cascata d'ebano fluente...

Mi sembrava d'avere dinanzi la creatura più bella che avessi mai visto: dentro mi bruciava una furia di ricoprirla di baci e di prenderla tra le braccia per fuggire con lei da quel luogo infido che sembrava averla inghiottita...

Ma ella parlò e ancor oggi ho dentro quelle parole come chiodi infuocati che non potrò mai dimenticare: "Sì, Ronny, sono io, quella che tu credi essere tua cugina... Ma io non sono la vostra Selenya, ma la Selenya d'altra radice... Io sono il frutto proibito di un Sì d'amore che altri ha voluto. ... Io per essere devo ritrovare il mio inizio: Egli mi possiede e mi comanda... Così vuole e quando nel suo amplesso di fuoco la mia carne si dilania, io inizio a ricordare. E solo quando mi ricorderò ove ella donne nella sua veste di brillanti, finirà il mio strazio... Allora dormirò nel grande prato assieme alla mia fonte prima... in pace... In pace...". E ciò dicendo i suoi begli occhi si colmarono di lacrime...

Riuscii a tendere le braccia, per stringerla a me, ma lei mi fermò e unendo le mani in atto di preghiera, mi supplicò: "Vattene, Ronny, vattene, lasciami al mio destino, che Egli così ordina... Vattene se non vuoi finire come loro per i quali ho invano pianto...".

Quelle disperate parole erano una chiara denuncia, ma a chi? Chi era quell’ “Egli”? Mi sembrava di impazzire e mi sentivo sul cuore uno spasimo, pur tuttavia i miei movimenti erano come legati e la mia voce affogata in gola... Ripetevo solamente, tremando: "No!... No, Selenya! Nooo!...". Allora, ella, con un gesto disperato, si sganciò la spilla che teneva la strana veste fermata sulla spalla e, lasciando cadere il peplo rosso, si scoprì; mi fece vedere il suo corpo nudo, esile e perfettissimo, di un candore d'intatta magnolia: sui seni e sul basso ventre il bel corpo era deturpato da cicatrici orribili, alcune già rimarginate, altre ancora gonfie e sanguinolente...

Ricordo che inorridito mi morsi le labbra a sangue e poi riuscii a gridare: "Oh no, Selenya... Miserabile! Miserabile!"...

Allora da non so dove, prima più lontana e poi sempre più vicina, si udì quella risata folle e demoniaca...

Selenya impallidì come una morta. Indi gridando: "Fuggi...", e serrandosi addosso il peplo, sparì; forse sparì, inghiottita da cosa non so, perché in quell'attimo un terribile fulmine tagliò la luce e il boato for­midabile che seguì fece spalancare i vetri, forse mal chiusi, riempiendo la stanza di un frastuono assordante di pioggia e di vento.

Ebbi l'impressione, in quell'ultima frazione di luce che le fosse caduta a terra la spilla che fermava la veste sulla spalla.

Ansante e tutto in un bagno di sudore gelato riuscii a raggiungere la finestra, mentre quel diluvio d'acqua entrava dentro ed inzuppava me e le tende. La chiusi, in lotta col vento e in quel minuto ritornò la luce. Stravolto e disperato cercai di vedere, di capire dove fosse sparita. Ma dove, dove? - E da dove veniva quel riso demenziale che ancora mi riecheggiava dentro come una frustata di scherno? Ma, con mio stupore, si sentivano solo il frastuono della pioggia che non cessava di flagellare i vetri e gli uncini affilati di tramontana che si arrotavano con sibili taglienti sulle chiome degli alberi, sui muri della casa.

Ero inebetito e furioso con me stesso per non essere riuscito a far nulla, ma nella stanza non vi era alcuna traccia di quanto io avessi visto ed udito, anzi la quieta usualità delle cose di sempre sembrava beffarmi e suggerirmi che ero pazzo, che avevo sognato, che era, forse, soltanto un effetto dell'alcool...!

In quei momenti cento, mille sentimenti mi si torcevano dentro e su tutti una rabbia con me stesso mi abbaiava che non ero riuscito a fermarla, lei, la mia piccola, adorata Selenya che quel bruto vigliacco torturava così atrocemente. La mia testa era in fiamme! Allora guardai il boccale di birra ormai vuoto e mi parve di percepire in quelle poche gocce di rimanenza che erano sul fondo, ancora quell'odore dolciastro e nauseabondo. Come un lampo un'idea mi attraversò il cervello: mi sono ubriacato e forse... forse qualcuno mi ha dato del sonnifero! L'idea però mi parve subito assurda, tanto più che in casa non c'erano che Kora, la cuoca, che mi dimostrava una tenerezza particolare e Rosy, la cameriera di casa Kefrai, donna che tutti giudicavano assai onesta e fedelissima. Il terrore che quanto avevo visto ed ascoltato fosse un sogno mi fece penosamente trasalire. Trassi dalla tasca il taccuino che portavo sempre con me, per vecchia abitudine professionale, e la penna; come riascoltando un disco, scrissi tutto quello che mi aveva detto Selenya, sforzandomi di riportare parola per parola con la massima precisione. Lessi e rilessi e l'assurdità di quelle frasi, che pur tuttavia eran all'incirca le medesime di quelle già udite per telefono, aumentò in me il sospetto che si fosse trattato di un sogno, solo un sogno orrido e pur dolcissimo, forse causato dalla troppa birra. Se sbornia era stata a darmi quell'allu­cinazione, come mai mi era passata così velocemente? Erano state forse l'aria gelida della notte e le folate furiose di tramontana che mi avevano schiaffeggiato il volto quand'ero andato a chiudere la finestra? Guardai l'orologio e con stupore mi accorsi che erano appena le undici e ventidue. Mi ricordai che, mentre bevevo la birra, avevo guardato l'ora sul pendolo che era di fronte al mobile misterioso. Allora le lancette segnavano le ventidue e trenta.

Che strano! Se sonno era stato avevo dormito appena tre quarti d'ora, circa, e in così poco tempo avevo sognato? Ma i sogni non si ricordano con tanta dovizia di particolari e con tanta precisione di paro­le... E in me quelle parole dettemi da Selenya erano così tanto vive che mi trafiggevano dentro, una per una, come spilli... Allora?

Avevo la testa torchiata da un cerchio di fuoco e mi sentivo profondamente infelice, senza saper che fare, senza discernere quale fosse la verità. Ripensavo a come potesse essere giunta: non dalla porta, non dalla finestra... Ma, dunque? Quindi un sogno, un'allucinazione della sbornia?... Ritornavo, ossessionato dall'apparizione, ostinatamente a Selenya, alla sua bellezza e al sentimento che mi ero scoperto dentro, nato a mia insaputa... Rivedevo il suo bel corpo sfregiato da quelle infami torture e a nulla valeva il ripetermi che era certamente solo un sogno... Ad un tratto me la rividi dinanzi, fola di quella mia fantasia disperata e stravol­ta, quando, udita la risata, terrorizzata era fuggita e dalle mani le era scivolata in basso la spilla. Come un pazzo mi buttai a terra e iniziai a cercare freneticamente sul pavimento e poi sotto il divano. Non vidi nulla e allora lo spostai, staccandolo dalla parete. Ed ecco... Dalla gola mi sfuggì un gemito e le mie mani gelide afferrarono un oggetto lucente che era quasi nascosto tra il piedino del divanetto e la parete: era la spilla di Selenya!... Un ovale su cui spiccava una figura femminile paludata, con la testa rovesciata ali'indietro, che aveva sul petto, inciso perfettamente, un fiore più grande con a lato due più piccoli. Al centro del fiore più grande era un grossissimo brillante che, a seconda di come lo si muoveva, sembrava emanare attorno scintillanti fasci di luce rifratta nei sette colori.

Di scatto, la mia mente squarciata memorizzò: - I tre fiori! I tre fiori del marchingegno del pannello, i tre fiori di cui aveva parlato al telefono Selenya... -. Dentro mi ribollivano due sentimenti violentissimi, uguali e contrari: la gioia che Selenya fosse viva, e quella spilla ne era la prova inconfutabile, e la rabbia di saperla in preda ad un maniaco sessuale che la martorizzava con chissà che atroci torture, per chissà quali folli intenzioni.

Furibondo, mi lanciai su quello strano pannello ligneo, un copri muro per come appariva al primo sguardo e lo flagellai di pugni e di calci. Ma, tranne il dolore delle mie mani che nulla potevano contro quel corpo duro, tutto rimase assolutamente identico, immobile al suo posto: un'artistica beffa!...

Invocai ad alta voce con grande disperazione: "Selenya... Seleenyaaa". Mi risposero però solamente lo scrosciare furioso della pioggia, l'urlo del vento che pareva un bisturi impazzito contro i vetri delle finestre e le lugubri sagome dei cipressi... Bestemmiai quel male­detto paese! - e per un attimo quella pesante cortina d'acqua che pareva l'unica prerogativa di quella dannata valle giacque sulla mia mente scon­volta, imbibendo i miei pensieri. Strinsi nel pugno il medaglione quasi a darmi così un dolente aggancio ad altra realtà ben più tragica; continuavo a dirmi: - "Non ho sognato! È viva, viva e devo ritrovarla assolutamen­te!" - Così, con la testa che mi doleva atrocemente, stremato da un turbinio di opposte sensazioni e decisioni, tutte scartate perché inconclu­denti ed assurde, vedevo passare il tempo, un tempo vuoto ed io ero sempre più impotente e disperato.

Mi accorsi di essere tutto freddo e di tremare, non so bene se per la temperatura o per lo stress. Così mi recai al caminetto con l'intenzione di accenderlo! Giostrando con paletta, attizzatoio e molla tirai su della legna rimasta per dar fuoco; allora mi accorsi che nel fondo, attualmente annerito e ben mimetizzato dalla fuliggine, da mozziconi di tizzoni spenti e da scomposti mucchietti di cenere, contro ì mattoni bruciacchiati e anneriti del retro, vi era qualcosa. Intanto avevo già dato fuoco ad un grosso fascio di legna stagionata, recuperata in una legnaietta di riserva che era al lato in una insenatura della parete. Feci appena in tempo con un gran colpo dell'attizzatoio e una vigorosa pedata a spegnere la prima lingua di fuoco che, velocissima, piegandosi all'indietro, stava per bru­ciare quel qualcosa. Lesto vi rovesciai sopra la tazza del consommé: un odore acre e puzzolente esalò dal caminetto. Con un ferro ad uncino che avevo visto appoggiato in un canto, con gran difficoltà, riuscii a smuo­vere una specie di superficie rettangolare colà sapientemente incassata.

Finalmente eccola! All'annerimento e alla fuliggine precedente, si erano uniti i danni attuali: il calore della fiamma aveva un po' increspato e ingobbito quel qualcosa su cui la parte liquida del brodo aveva unto e in un certo qual modo incartapecorito quella superficie che sembrava consistente. Intuii subito che doveva trattarsi di un quadro e ansiosissimo tentai di ripulirlo col fazzoletto. Sul retro la tela, se tela era, era coperta da una patina bruna e spessa come una pellicola d'oscuramento o, chissà, di protezione. Grattai piano piano con l'unghia ed ecco cominciò ad apparirmi il disegno! Per lavorare con maggiore attenzione poggiai il rettangolo sul tavolo e con il coltello, adagio adagio, iniziai a togliere quello strato secco e crostoloso... Miracolo! Era quel certo quadro che aveva visto mia madre il primo giorno che era stata col notaio al castelletto! Lo avevo cercato dappertutto e ne avevo anche chiesto noti­zie alla cameriera Rosy che era colà sin da quando era viva la cugina Theanò e a Kora, la cuoca di colore; ma nessuna delle due ricordava di averlo mai visto. Ora, invece, era lì, dinanzi a me, dopo esser stato occultato chissà da chi in un luogo tale che per puro caso non era andato distrutto: forse proprio questa era l'intenzione di chi lo aveva così bene nascosto. Ma chissà chi, (e perché) in quel luogo praticamente quasi disabitato, aveva interesse a far ciò? La mia mente in cui roteavano tanti turbinosi pensieri, si era come sdoppiata, fermandosi, una parte in tali considerazioni, l'altra, tuffandosi rapita nella contemplazione della figura che pian piano andava sempre più delineandosi chiaramente. Con grande cura le toglievo di sopra, con un angolo del tovagliolo, quella patina sudicia e appiccicaticcia...

Finalmente!... E il mio cuore pulsava come impazzito!... Lì di­nanzi a me era Selenya, con un viso più vecchio e, anche se tanto triste, meno logorato da quel dolore spasmodico che le avevo scorto prima: era colei che avevo visto in quei precedenti attimi, forse irreali, in cui ancora non sapevo se ero totalmente immerso nelle nebbie fantastiche del sonno o se stordito in chissà che alterazione alcolica e altra mistura alluci-nogena. Avevo visto lei, lei con quell'abito di greca antica, lei con quel corpo straziato, lei con quella spilla... con quella spilla che non era un sogno ma una cosa ardente come il fuoco e che bruciava nella mia mano, urlandomi con la sua presenza la realtà. La realtà? Ma quale? Non poteva darsi che quella spilla che avevo ritrovato a terra fosse stata lì chissà da quanto e che quindi si trattasse solo di una diabolica coincidenza?

Come non facevo da quando ero bambino, scoppiai in un pianto dirotto e i singhiozzi che mi squassavano il petto erano lo spasimo di un Prometeo incatenato ad un'impossibilità d'azione, ad una bivalenza del reale e dell'irreale che come due cappi infuocati strangolavano la mia ragione.

Passai il resto della notte in muto colloquio con quel quadro per me caro e sconvolgente. Dovevo assolutamente parlarne con qualcuno!

 

 

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