Parte prima - L'EREDITÀ

Capitolo 1 - Capitolo 2  - Capitolo 3      

         
Il castelletto di Blackvalley.

 

 


CAPITOLO 1


Voglio iniziare questa serie di trasmissioni del programma «Amici del Giallo» con questo mio disperato appello

CHI HA VISTO SELENYA WEEFOR?

Il mio nome, come sapete, è Ronny Masters, sono corrispondente del New Post e ora qui con voi collaboratore di Flash Program.

Per ragioni di lavoro ho dovuto lasciare la mia casa nel Rhode Island e trasferirmi nel Connecticut. Con mia madre, rimasta vedova ormai da diversi anni di mio padre, il pastore evangelico George Masters, ho mantenuto sempre una tenera corrispondenza che col calore del suo affetto mi dava l'illusione di esserle ancora vicino nell'accogliente inti­mità della mia piccola casa nel paesaggio pulito e distensivo delle mie colline, dei miei prati, del mio vecchio fiume.

...Così mia madre mi ha scritto dell'improvvisa quanto inattesa eredità del cugino Reginald Kefrai, un parente che io ricordavo appena, per averlo visto in qualche fuggevole visita, quando ancora s'interessava del commercio dei diamanti, come corriere Boston-Amsterdam.

Per questo mia madre in quel periodo mi scriveva quasi quo­tidianamente, raccontandomi del suo stupore e di quello della zia Meg, come lei coerede nel lascito del cugino Kefrai. Mi narrava inoltre le sue impressioni, le sue perplessità e il suo grande desiderio di andare ad abitare nella nuova residenza di Blackvalley con la zia Meg, lo zio Martin, la cugina: sì, la cugina Selenya che ricordavo benissimo, una splendida ragazza bruna e misteriosa, ma, ora, tanto bisognosa di riposo e di massima tranquillità, essendo da poco uscita da una grave forma di esaurimento.

Per questo la grande casa dei Kefrai, chiamata il castelletto di Blackvalley, presso Stockwell, sita in un luogo così appartato e silenzio­so, sembrava l'ottimo.

Tuttavia, a mia madre la località e soprattutto la dimora avevano fatto una pessima impressione per la loro tetraggine.

Mi scriveva:

"Caro Ronny, ... .. .più che di una casa di normale abitazione, a me sembra si tratti di un lugubre castello, non tanto per la grandezza della residenza, ma per la singolarità della costruzione! La pianta è ristretta, ma l'edificio è tutto sviluppato in altezza, con stanze e stanzette su vari piani, raccordati da brevi fughe di scale discontinue, talune in salita e subito dopo, per im­provvise curvature dei corridoi simili a labirinti, in discesa. Le finestre sono strette ed alte, tanto che il sole che vi compare assai di rado, riesce a penetrare non con i suoi raggi fulgidi e dorati, ma con un lucore malato che pare quasi lunare! In più, in tutta la zona di Blackvalley, nei pressi di Stockwell, sembra che il clima non sia dei migliori, poiché si scate­nano spesso dei furiosi temporali, con turbini di vento gelido. Han detto alla zia che quando soffia così sembra che la tramontana voglia coinvol­gere nelle sue sibilanti spirali quello strano edificio di pietra scura, tutto abbrunato da edere rampicanti.

Queste notizie sul clima, caro Ronny, me le ha date la zia Meg che come me è un po' preoccupata... Ma soprattutto, figlio mio, la cosa che più di tutto mi ha messo a disagio, anzi mi ha dato addirittura dei brividi è stato il viale che dal mulino porta con un'accentuata salita al piccolo spiazzo in cui si apre il portone del castelletto. Questo viale stretto ha due lunghi filari di cipressi fittissimi che impediscono totalmente il passaggio ai raggi del sole.

Questi cipressi, così mi disse il notaio Nick Ferguson che gentil­mente per la prima volta mi accompagnò a vedere la casa del cugino Kefrai in Blackvalley, erano il capolavoro del giardiniere, un certo Hander Bosas, forse un vecchio marinaio originario delle Bermuda, uomo strambo e scontroso. Costui, padrone assoluto di quegli alberi, che aveva curato con parossistica diligenza, non aveva permesso a nessuno di sfoltirli, né tanto meno di abbatterli. Ciò neanche ai padroni e in particolare neanche alla povera cugina Theanò, la moglie di Reginald che, essendo greca e abituata al cielo limpido della sua terra, non soppor­tava quella tetra presenza dei cipressi che arrivavano fin sotto la sua finestra, togliendole aria e luce. Forse anche per questo la poveretta morì molto presto, consumata da uno strano male, in quell'ambiente così cupo e malinconico.

Queste cose ovviamente me le ha dette il notaio che era molto amico del cugino Reginald e che frequentava assiduamente la casa. Mi ha anche detto che il cugino, legato al giardiniere da un antico debito di riconoscenza, subiva totalmente l'influsso della personalità violenta e bisbetica del giardiniere stesso, tanto da lasciargli, alla sua morte, l'uso di tutta la proprietà di Blackvalley...".

Leggo ancora in un'altra lettera di mia madre:

"...Ciò che maggiormente colpisce è la singolarità del paesaggio in cui convivono elementi disparati e imprevedibili: diversi chilometri dopo l'ultima casa di Stockwell, si vede apparire all'improvviso, dopo aver salito e disceso una brulla collinetta, in cui la mulattiera è recintata ai lati da folti cespugli di un'erba giallastra e spinosa, la striscia tisica e tortuosa del fiume, il Black River. Anzi, in verità, per alcuni versi è piuttosto un fiumiciattolo, che, a dir del notaio Ferguson, è quasi sempre secco, tranne, quanto per eccezionali piene, diventa assai tumultuoso e straripante, con una massa enorme di liquido schiumoso e grigiognolo. Da lì, o meglio da dove inizia la collinetta, è la zona chiamata Blackvalley, nome, caro Ronny, che già, non ti nascondo, mi fa un certo effetto negativo!... Forse la zona sarà chiamata così per la fosca tristezza del paesaggio tanto inaccogliente e così diverso, ahimè, da qui, dove ho la mia piccola casa!...

Sull'altra sponda del Black River poi, ad accentuare l'ostilità del panorama, vi è un bosco, o meglio un ammasso contorto e cupo di tronchi che sembrano escludere all'uomo ogni pur minimo passaggio e visione di ciò che vi è dietro.

Ricordo che il notaio ha fermato la macchina ed entrambi abbiamo provato un senso di disagio e di rifiuto, anche se il notaio ha dichiarato di conoscere la strada a menadito; infatti, seguendo la striscia irregolare del fiume, in un punto in cui pareva allargarsi per poi piegarsi in un'ansa angusta, semi nascosto c'era un pontile grezzo e traballante. Lo abbiamo oltrepassato con cautela e, malgrado l'apparente baldanza del notaio, con gran preoccupazione.

Così abbiamo potuto imboccare un sentiero, lì dove il bosco era un poco più rado. Dopo non molto ci siamo trovati dinanzi uno scenario assai differente, che, in un certo qual modo, mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo! Gli alberi diradavano e poi, all'improvviso, cessavano per dar luogo ad un prato verde, qua e là tappezzato di fioretti azzurrognoli assai strani per la stagione autunnale, in quella zona fredda e nebbiosa.

Al margine della radura si erge, con un profilo assai bizzarro, un fabbricato somigliante per alcuni tratti caratteristici addirittura ad un mulino a vento, ma che in realtà doveva aver avuto ben altra funzione. Ciò lo si capiva sia per la piccolezza effettiva della costruzione, sia, per l'interno, visibile dalle finestre scardinate e senza vetri, protette da grosse inferriate. Anche la porta, stretta e bassa, penzolava su un solo cardine e, non essendo chiusa, era mossa dal vento con un cigolio sinistro.

Il notaio Ferguson mi disse che anche quella era proprietà del cugino Kefrai e che colà Theanò, la giovane moglie, usava trattenersi a dipingere, sola, con la sua malinconia e il rimpianto della sua terra: ivi aveva creato un suo singolare studio di pittrice, in cui passava molte ore.

Il notaio ha fermato la macchina e siamo andati a vedere: nei locali al pianoterra vi erano ancora, lungo le pareti, vistose tracce dell'antica pittura. Infatti, si potevano notare ampie cornici tarlate e scolorite, molte vuote e tal'altre con residui di tele sberciate.

All'interno della costruzione lo spazio era davvero ristrettissimo, contrariamente a quanto facesse presagire la visione esterna che già di­segnava un modesto edificio. Tale angustia era forse causata dalla ciclopicità delle mura spesse tanto in alcuni punti da far immaginare, a fantasie suggestionabili, l'esistenza di misteriosi corridoi ricavati tra le mura esterne e quelle interne. Al centro vi era una stanza quasi tonda, con armadi e armadietti tutti pieni di pennelli ammuffiti, vaschette di vernice ormai seccata e spruzzi di colori raggrumati dappertutto.

Mi colpì un intenso odore, un po' dolciastro, di un qualcosa, forse un profumo andato a male o di una qualche mistura caramellosa, ora nauseabonda, ma forse un tempo gradevole...

La cosa mi stupì notevolmente, in quanto colà la corrente d'aria era ben forte e certamente tale da fornire un continuo ricambio. Ma di ciò non ho parlato con il notaio che vedevo un po' seccato per la perdita di tempo. Infatti guardava continuamente l'orologio, probabilmente preoc­cupato che si facesse troppo buio per intraprendere la difficile strada del ritorno.

In fondo al corridoio, anzi, in fondo a sinistra, perché il vano angusto piegava improvvisamente con uno stretto gomito, era una scala, assai irta e sdrucciolevole, dai gradini tutti rotti e priva lateralmente di alcuna protezione. Era veramente pericolosa e infida. Il notaio mi ha detto che sopra vi erano delle stanze da letto, ma che escludeva vi si potesse accedere da lì. Vi era anche la scala esterna, non in migliori condizioni di sicurezza e di agibilità: questa, ergendosi sull'estremo della fiancata, verso la campagna, portava alle stesse stanze; tuttavia, mi disse che sia per il poco tempo disponibile, sia per le pessime condizioni di conservazione, non era il caso di visitarle. D'altra parte però, negli ultimi tempi, dopo la morte della povera cugina Theanò, colà aveva abitato il giardiniere Hander, usufruttuario, per così dire, della proprietà del cugi­no.

Così, abbiamo deciso di andar via e il notaio mi ha preceduto in macchina per mettere in moto. Ma io nell'uscire sono rimasta assai stu­pita, anzi, per dirti la verità, proprio turbata... Ho visto appoggiato dietro la sgangherata porta d'ingresso, con la faccia rivolta alla parete, un gran­de quadro: incuriosita l'ho staccato dal muro, gettandolo un po' indietro e, con mio enorme sbalordimento, anzi in preda ad un terrorizzante scon­certo, ho visto dipinta una figura femminile che, per quanto ho potuto capire, guardandola così di sghembo, tra una miriade di grigiognoli fila­menti di tele di ragno, mi è sembrata Selenya, la figlia di zia Meg. Sì, proprio tua cugina Selenya! Incredibile. Inoltre, ho visto per terra un rotolo di carta che ho raccolto, l'ho srotolato e, in una nuvola di polvere, ...non ti dico che impressione!... Colà, chiarissimo, era dipinto, assai in grande e con maestria, il viso della nostra Selenya, con quella sua tipica espressione colma di tristezza che ha, ormai, da quando si è ammalata.Proprio così, figlio mio, non ti sto dando i numeri! Non è assurdo?

Il notaio, intanto dalla macchina, non vedendomi venire via, mi suonava insistentemente il clacson. Io, però, non riuscivo a staccare lo sguardo attonito da quel bellissimo dipinto, che poi aveva il medesimo soggetto del quadro grande in cui però non vi era solamente il volto, bensì tutta la figura drappeggiata in una elegante toga rossa, di foggia antica e fermata sulla spalla da un medaglione.

Mio carissimo Ronny, pensa pure che sono una vecchia che fan­tastica, facilmente suggestionabile, ma la cosa mi ha lasciato davvero senza fiato, sbigottita ed esterefatta...

Intanto il notaio che aveva già messo in moto, non vedendomi venire, continuava, spazientito e nervoso, a suonare il clacson, ma io, incredula e strabiliata per l'inspiegabilità della cosa, (te lo ripeto ed ancora adesso ne provo tanta emozione!) non riuscivo a staccare lo sguardo da quei lineamenti dipinti così perfettamente uguali a quelli di Selenya, ritratti con tanta dolente espressività.

Allora il notaio, che cominciava a preoccuparsi, è venuto a vedere e mi ha trovata stravolta con quei disegni in mano. Mi sono scusata e gli ho mostrato i dipinti, ma egli, con un viso un po' strano, (così mi è sembrato) mi ha detto che quella era l'immagine - pensa un po' - di Theanò Kefrai, ritratta in antico costume greco.

Capisci, Ronny, il notaio Ferguson asserisce che quella è Theanò Kiryakopulos, la moglie, morta diversi anni fa, di nostro cugino Reginald che io non ho mai conosciuto; ma io ti assicuro invece che quello era il ritratto della figlia di mia sorella, la nostra Selenya, che ha fatto da un po' vent'anni, raffigurata per com'è in questi ultimi mesi, dopo quel terribile esaurimento causato da chissà cosa che a momenti le sconvolge la mente. Pertanto non vedo l'ora che tu possa venire a constatare di persona.

Naturalmente a Meg non ho scritto nulla della cosa, per non im­pressionarla ed anche con il notaio non ne ho discusso avanti, poiché mi è sembrato di vederlo scuro in volto, come se qualcosa non andasse.

Scusami, caro, se ti ho scritto così a lungo, ma, figlio mio, sei tu solo il mio confidente! Ora smetto. Ma ho ancora in mente e non riesco a togliermela dal pensiero, l'immagine sofferente e malinconica del ritratto e mi sento dentro una grande inquietudine e un senso d'ansia. Ti scriverò in seguito del resto della visita con tutti i particolari...".

Da quel giorno le lettere di mia madre ebbero un momento di sosta; sicché, malgrado i miei tanti impegni, decisi che, se entro la setti­mana non mi fosse giunto null'altro, sarei andato a vedere: spesso, nei brevi momenti di pausa mentale, mi riaffioravano le descrizioni non certo allettanti di questa nostra nuova proprietà che ci era giunta così inaspet­tatamente, essendo Reginald un cugino di mia madre da noi per nulla frequentato. Inoltre non ci vedevo chiaro sulle asserzioni del notaio, per il quale provavo un'istintiva antipatia. Mi sembrava impossibile che quel quadro potesse raffigurare Theanò Kefraì. Come poteva sbagliarsi mia madre? E d'altra parte come poteva un ritratto di Selenya trovarsi in quel luogo?...

Invece di lì a qualche giorno mi giunse una cartolina di mia madre che in maniera assai laconica mi comunicava che aveva "novità strabi­lianti" che mi avrebbe scritto al più presto. Da lei stava per arrivare la zia Meg con il marito e la figlia e perciò era occupatissima per accoglierli e per organizzare tutto il necessario in vista dell'imminente trasferimen­to.

La cosa mi rassicurò, anche perché saper mia madre in compagnia di sua sorella maggiore mi dava gran fiducia.

Dopo una decina di giorni mi giunse una breve lettera (cosa stra­nissima, in verità), in cui la mamma m'informava di essere andata con la sorella, il cognato e Selenya a rivedere quella strana casa di Blackvalley, appena ereditata. Anche agli zii la costruzione era sembrata tetra e carica di un qualcosa di misterioso e angosciante, tanto che erano assai in dubbio se trasferirvisi. Specialmente opprimeva il viale dei ci­pressi che, da dietro al mulino, dove da un lato rinfittiva il bosco, portava in salita al castelletto, un edificio così singolarmente alto e stretto come un dito irriverente puntato contro il cielo.

Solo Selenya ne era rimasta entusiasta!

Mia madre mi scriveva testualmente: "Selenya pare addirittura ammaliata da quel paesaggio selvaggio, così inconsueto dalle nostre parti. Persino le son piaciuti quei cupi filari di cipressi che, come una nera striscia mortuaria, portano dal mulino al castelletto! Così, quando ha sentito che si era tutti in dubbio se trasferire colà la nostra definitiva residenza, è scoppiata in un pianto dirotto che ci ha lasciato tutti sbalor­diti ed amareggiati. Ha pianto come distrutta da una pena inconsolabile, dicendoci che solo in quel luogo sarebbe guarita.

Ahimè, povera ragazza, è proprio malata!

Pensa, Ronny, tra i singhiozzi ripeteva come allucinata: - "Ora sento che soltanto qui posso vivere!..." - Ha smesso solo quando le abbiamo promesso che ci saremmo trasferiti quanto prima. Pensa un po', poi le è venuta la febbre e il medico ha detto che dobbiamo assolutamen­te accontentarla, dato il suo stato depressivo ed ossessivo...".

Questa ulteriore notizia alquanto preoccupante, mi fece rompere ogni indugio e decisi di chiedere qualche giorno di ferie per andare a rendermi conto di persona. Quella benedetta eredità che inizialmente ci aveva dato tanta gioia e tanta speranza di un avvenire in minori ristret­tezze, ora rischiava di togliermi la tranquillità. Oscuramente, sentivo un senso di apprensione, quasi che fossimo entrati in un tunnel di disgra­zie!... Eppure per mia mamma che era rimasta vedova di mio padre che lei adorava e che aiutava con affettuoso slancio nelle attività pastorali, poiché mio padre George Masters era un attivissimo pastore della chiesa evangelica locale, il potersi trasferire in una casa grande e comoda in compagnia della sorella sembrava l'ottimo.

Ed anche per i miei zii Weefor che non navigavano in prospere condizioni economiche quell'eredità era parsa all'inizio una manna dal cielo: infatti, in casa vivevano con il non florido stipendio dello zio Martin che faceva il bibliotecario nella biblioteca comunale di Green Town e a causa della grave malattia di Selenya avevano speso tutto ciò che possedevano per portarla dai più bravi specialisti. Ed anche prima, avevano avuto spese, dato l'ardente temperamento artistico di Selenya che sognava a tutti i costi di fare la pittrice: per farla contenta, per mandarla a lezioni di pittura, si erano assoggettati ad un ménage fami­liare assai ristretto.

 

 

 

CAPITOLO 2


Mi ripetevo che non dovevo drammatizzare, cercando invece di vedere la cosa nel suo lato migliore, per questo ardevo di recarmi a Blackvalley al più presto.

Ma, all'indomani, quanto mi giunse mi fece assai preoccupare: vi ripropongo la lettera, certamente di mia madre, ma tuttavia senza alcuna firma, anzi chiaramente interrotta all'improvviso per chissà quale ragio­ne, di certo negativa, però. Diceva:

"Ronny mio adorato, finalmente zio Martin ha fatto tutto il traslo­co e con domani ce ne andremo ad abitare al castelletto: speriamo bene!

Con Meg abbiamo analizzato attentamente quello stranissimo mobile che il signor restauratore ci ha fatto arrivare lì. (Scusa, non ricor­do se già ti ho detto che giorni orsono mi ha telefonato questo signore per informarmi che presso i suoi locali di restauro vi era un prezioso mobile del cugino Reginald, anzi dal cugino donato al suo giardiniere, il solito Hander Bosas, ma da questi mai ritirato perché morto improvvisa­mente). Per questo, data la preziosità del corpo restaurato, l'antiquario si sarebbe preso cura di restituircelo, facendolo portare da personale appo­sito sino al castelletto, per situarlo nel suo antico posto, in salone. Però, né per il trasporto né per il lavoro di restauro ha voluto alcun compenso, dichiarando che aveva a tutto provveduto il cugino Reginald. Allora io e la zia, curiose, siamo andate a vedere, anche perché Stockwell da qui non è lontanissimo, circa due ore e mezzo di corriera e poi da li c'è il padrone della locanda Time Out che gentilmente si è offerto di farci accompagnare con la macchina sino al castelletto di Blackvalley.

Ronny caro, sapessi che strana impressione: quel mobile è un qualcosa, tutto magnifici legni intarsiati e ricami floreali in tasselli di

altro colore, di cui, però, non si capisce l'uso. Forse si aprirà, ma noi assurdamente non abbiamo trovato alcuna serratura o fessura; i cardini delle portelle anteriori sono solo degli intarsi lignei: più che un armadio o mobile vero e proprio a noi è sembrato un artistico copriparete! Quan­do lo vedrai, forse tu capirai!

Stranamente Selenya che in questi giorni è più ansiosa che mai ci ha detto, pur non avendo visto il mobile: "Io lo so dove si apre e dove porta... Stanotte ho visto il terzo fiore... di cui Lui mi ha parlato...".

Tu che ne dici, Ronny? A me quella sventurata ragazza fa tanta pena e più ancora la povera Meg che a sentirla parlare così diventa pallida come una morta. ...Squilla il telefono!

...Scusa, avevo smesso di scriverti. Ho davvero paura che stiano saltando i nervi anche a me. Meg e Martin sono usciti per qualche ultima compera e Selenya è di là che legge. Ed ecco che io ho ricevuto una telefonata addirittura assurda. Era un certo pastore O'Connor che mi ha detto di abitare ad una ventina di chilometri dal castelletto. Mi dava il benvenuto, riservandosi di venire a trovarci quanto prima nella casa di Reginald. Fin qui tutto ok, ma ascolta il resto: mi ha pregato di voler riassumere il vecchio giardiniere dei Kefrai, quel certo Hander Bosas! Gli ho risposto che da più parti mi era stato assicurato che l'uomo era già da parecchi mesi deceduto. Ma egli, assai stupito, mi ha precisato che proprio il notaio, Nick Ferguson, frequentatore assiduo di casa Kefrai, gli aveva raccomandato caldamente il vecchio giardiniere, non più tardi di una settimana prima. Che ne pensi Ronny?

Io non ci capisco nulla: quindi, o questo pastore chissà perché mente, o mente il notaio il quale mi ha assicurato che per disposizione testamentaria del cugino la casa e tutte le proprietà circostanti sono pas­sate a noi dopo il decesso di questo giardiniere al quale, finché era in vita, era stato dato l'uso del mulino e del castelletto. Anzi, il notaio mi ha detto che ha dovuto verificare con la massima attenzione la morte, alquanto strana, del giardiniere Bosas che era un vecchio pazzo ed ubriacone. Infatti, questi era stato trovato morto dopo diversi giorni sulla sponda del Black River che allora era in gran piena ed egli stesso aveva dovuto effettuare il riconoscimento. Solo così aveva potuto agire per il trapasso dell'eredità a noi...

Ancora il telefono (?)...

...Ronny, impazzisco! Mi ha telefonato indovina chi? Il giardinie­re! Figlio mio, ha una voce che mi ha fatto venire i brividi; certamente è un alcolizzato!... Mi ha chiesto conferma se domani saremo al castelletto, per farci trovare il caminetto acceso e il pranzo pronto. Malgrado la sua manifesta gentilezza, quello lì mi ha fatto una pessima impressione: certamente non lo vorrò tra i piedi.

Ma che pasticcio vi è sotto? Ho chiaramente in testa le parole del notaio che mi parlava della tragica morte di quest'uomo e, a ben pensar­ci, anche il restauratore mi ha detto che egli è deceduto; infatti non ha potuto ritirare il mobile donatogli dal cugino. Allora? Non ci capisco nulla. Ronny, vedi di venire presto tu...".

Qui la lettera s'interrompeva senza firma. Solo in basso una scrit­tura tremante e molto alterata, ancor oggi non so bene se era di mia madre, tracciava "Oh Dio! Selenya...".

Non vi era aggiunto altro, come se un qualcosa d'improvviso e di grave avesse interrotto la lettera e non avesse permesso che vi fosse apposto nemmeno un saluto e una firma.

Preoccupatissimo, mi precipitai a prendere la busta per vedere quando la lettera che in sé non portava data, fosse stata spedita. Con mia grande sorpresa vidi, cosa che non avevo notato prima, che la lettera non presentava alcun timbro, né di partenza né di arrivo, come se fosse stata portata a mano.

Riflettevo sulla stranezza della cosa e mi sovvenne che avevo trovato la busta in cassetta nel pomeriggio. La posta era passata al mat­tino ed io infatti, proprio quel mattino, avevo ritirato dell'altra corrispon­denza.

 

 

 

CAPITOLO 3


In preda all'ansia, feci il numero telefonico di mia madre. Il tele­fono squillò a lungo senza alcuna risposta. Nervosamente agganciai e riprovai più volte, anche perché, data l'ora, ero certo che mia madre dovesse essere in casa, altrimenti era sicuro che era già andata al castelletto.

Stavo per desistere, quando sentii rispondermi una voce bassa e roca che sgarbatamente mi chiedeva chi volessi. Stupitissimo, dissi di voler parlare con mia mamma, la signora Betty Mason Masters. L'uomo rudemente mi bofonchiò che colà non vi era alcuna Betty, anzi, "per fortuna, nessuna stramaledetta donna!". Così, mi disse.

Alle mie insistenze, mi brontolò: "Se si tratta della vecchia inqui-lina, è andata via da più di un mese!" e con ciò agganciò, emettendo un suono strano che mi parve una cupa risata.

Ho riprovato a fare il numero, ma nessuno mi ha più risposto.

Mi son sentito stretto in un angosciante imbuto di incomprensibile mistero. Così, incredulo sul fatto che quell'uomo avesse il numero da più di un mese, ho chiamato il centralino che ha dato l'ultimo colpo alla mia angoscia: il numero di mia madre era stato disdetto da parecchio tempo e attualmente non apparteneva ad alcun utente! Allora chi era quel vec­chio?

Più che mai preoccupato chiesi che mi fosse dato il numero del notaio Nick Ferguson, sperando di avere da lui qualche delucidazione. Ma anche qui ciò che ebbi modo di sapere aumentò la mia confusione e l'ansia che si era impadronita di me.

Trovai per un caso il notaio che, eccezionalmente, si era intratte­nuto fuori orario nel suo studio. Egli mi disse che per quanto era a lui noto mia madre e i miei zii si dovevano trasferire nel castelletto di lì a qualche giorno e che (e qui la cosa mi sembrò tanto grave da farmi decidere per un'immediata partenza), egli non aveva mai parlato con quel certo reverendo O'Connor, da lui mai conosciuto, del giardiniere certa­mente defunto.

Disse inoltre che in quella zona non vi era momentaneamente alcun pastore evangelico, essendo stato il reverendo Samuel Brown tra­sferito da più di un anno. Per quel che riguardava la morte del giardinie­re, mi ribadì seccamente, sentendosi toccato nella sua attività professio­nale, che egli ne era sicurissimo: "Il giardiniere Hander Bosas di anni 62, nativo delle Bermuda, era morto annegato nelle acque in piena del fiume Black River, in località Blackvalley sulla fine dell'aprile del 1991". Si era occupato della cosa con la massima meticolosità poiché nel testamen­to di Reginald Kefrai era scritto che il Bosas Hander avrebbe avuto diritto a godere della permanenza abitativa nel mulino fino alla morte. Solo dopo questa egli avrebbe potuto procedere all'assegnazione defini­tiva del patrimonio...

Chi era dunque il giardiniere fantasma che addirittura aveva tele­fonato a mia madre? E chi il reverendo O'Connor anch'egli misterioso interlocutore telefonico? Chi lo strano vecchio irascibile che mi aveva risposto al telefono?

La telefonata col notaio aveva aumentato solamente l'inspie­gabilità della storia.

Tuttavia accettai il suo consiglio di telefonare al castelletto: egli me ne diede il numero che risultava ancora intestato, stranamente, alla defunta Theanò Kiryakopulos Kefrai.

In me era una ridda di pensieri e di supposizioni, tutti assai neri ed angoscianti, a cui tentavo di reagire, dicendomi che si trattava certa­mente di una serie di maledetti equivoci. Così, imponendomi calma, feci il numero dei Kefrai. Il telefono squillava, squillava...

Ed ogni squillo mi rintronava dentro con tonfi secchi. Finalmente qualcuno rispose. Era una voce giovane, di ragazza, ma pareva venire da lontananze spaziali ed era velata da una grande tristezza. Chiesi ansiosa­mente con chi parlassi: "Sei tu, Selenya?". La voce, con quel modo cantilenante ed irreale, quasi in un monologo, infatti sembrava parlare solo a se stessa e non all'interlocutore, disse: "Ronny, sono quella che gli altri chiamano Selenya e dicono tua cugina. Ma in realtà io sono solo me stessa, ridesta da quella vostra apparenza di vita che mi avete imposto sin ora. Sì, perché fino a qualche mese fa mi avete fatto dormire affinché io fossi quella che voi volevate io fossi e che vivessi la vostra realtà e quindi la vostra vita. Ora ho avuto la Voce che mi ha spaccato dentro il buio del sonno e so chi sono. Egli mi ha detto la verità. Capisci, so chi sono e so che La devo ritrovare. Sì, devo ritrovare con la sua veste di brillanti, la parte prima di me stessa, la mia origine che era prima di me e da cui ho tratto esistenza. Lui dice che La devo ritrovare".

L'ascoltavo profondamente dispiaciuto e tentavo continuamente d'interromperla con dolce insistenza, comprendendo che era in un mo­mento di grave crisi psichica. Ma ella pareva non udirmi e con quella straziante voce, carica di pathos, continuava il suo monologo. E a nulla serviva che io la pregassi di farmi parlare con mia madre o con la sua. Non mi udiva e continuava quella sua fantasticheria che purtroppo solo più tardi, parecchio più tardi, quando ormai era forse troppo tardi, ho capito...

Mi recitava, disperata ed ossessiva: "Devo trovarla: è la mia radice primaria, la parte che mi manca e che è la fonte del mio essere. Egli lo vuole assolutamente sapere. Ma solo quando mi possiede, io ricordo, inizio a ricordare qualcosa. Egli me lo comanda e per questo mi ha insegnato il segreto dei tre fiori che porta dove lei è, nel prato dei diam...". E qui il telefono ebbe un colpo secco, quasi che qualcuno l'avesse fatto cadere. Poi il numero segnò occupato. Chiamai e richiamai nuovamente, ma non ci fu verso di riavere la linea libera.

Allora, sotto l'impressione di quegli avvenimenti che parevano prendere una piega addirittura inquietante, scesi in garage per mettermi in macchina dopo aver annotato sul mio taccuino tutte le parole di Selenya. Ma anche lì le sorprese non dovevano finire!...

Tutte e quattro le gomme della mia macchina erano a terra... ! E sul parabrezza vi era un biglietto vergato da una rozza scrittura: "Lascia che tua madre e i tuoi parenti si godano l'eredità, lì, da soli".

In preda ad una rabbia sorda e con la certezza che in tutta questa vicenda vi fosse chiaramente del losco, mi torturavo tra mille ipotesi e cercavo di trovare gli estremi per rivolgermi alla polizia, ma al di fuori del voluto danneggiamento della mia macchina, non trovavo appiglio alcuno per far intervenire la forza pubblica. Cosi, almanaccando suppo­sizioni e piani di intervento, perdevo solo che tempo.

Allora mi sovvenni di un mio collaboratore che in un'altra occa­sione mi aveva prestato la sua macchina. Decisi di telefonargli e di soprassedere per il momento alla denuncia.

Gli escogitai ragioni gravissime e nel giro di lì a poco ebbi la sua macchina.

Volavo sull'autostrada a tutta velocità, anche se la notte era scu-rissima e iniziava a cadere una pioggerellina insistente e insidiosa. An­davo macinando in testa stupori e preoccupazioni, nervoso e teso... Ad un tratto mi accorsi che dietro me c'era una vettura di grossa cilindrata che tentava uno strano sorpasso senza immettersi nella giusta corsia. Infatti mi lampeggiava e poi rinunciava, reinserendosi dietro. La mano­vra fu ripetuta parecchie volte e addirittura una volta gli era quasi riusci­ta, tanto che, avendo la macchina accanto, avevo potuto intravedere al volante un uomo, un vecchio mi era sembrato, forse con la barba.

Rallentai... e... mi sentii dilaniato da un urto terribile, mentre una luce mi accecava... Sentii un tremendo dolore al fianco e nelle orecchie mi rimase, oltre allo stridore assordante di ferraglie in collusione, un'atroce risata, demente e crudele come quella luce abbagliante che mi aveva trapanato le pupille...

 

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