|             Il 
			ruolo dei calabresi nell'antirivoluzione sanfedista 
			I calabresi non perdano l'occasione, offerta dalle celebrazioni che 
			si faranno nel 1999, per far luce sul ruolo che essi ebbero nella 
			"antirivoluzione" sanfedista.  Il 1998 è appena iniziato e sarà l'anno 
			durante il quale si parlerà a lungo della rivoluzione Giacobina, 
			della Repubblica Napoletana, della controrivoluzione Sanfedista e 
			dei protagonisti dei terribili eventi che, 200 anni fa, 
			insanguinarono il Regno di Napoli.L'anno prossimo, il 1999, sarà l'anno delle celebrazioni: sarà 
			celebrato il secondo centenario della fondazione e caduta della 
			Repubblica Napoletana, che ebbe vita molto breve: dal 21 gennaio al 
			13 giugno 1799.
 Ma a quanto si sente e si legge sarà celebrata - e per quanto io 
			sappia sarà la prima volta che ciò avviene in 200 anni - anche la 
			rivoluzione anti giacobina, che, in verità, fu la sola rivoluzione 
			di quegli anni che vide protagonista il popolo dell'intera Penisola.
 Sarà compito degli storici spiegare, ai disincantati giovani di 
			oggi, come e perché nacque una Repubblica che non vide protagonista 
			il popolo, ma "il mondo" della cultura partenopea al quale si 
			unirono la componente pi- sensibile ed illuminata della borghesia ed 
			una frangia della nobiltà.
 I meno giovani, quelli che nel corso della loro pi- o meno lunga 
			vita hanno avuto interesse per la storia, conoscono gi... quel 
			"perché", ma molti di loro vorrebbero che, in occasione del 
			bicentenario repubblicano, si aprisse il dibattito su altri 
			"perché", relativi alla "rivoluzione" anti giacobina e, per quanto 
			riguarda la Calabria in particolare, sulla controrivoluzione 
			sanfedista sulla quale, nei 200 anni sin qui trascorsi, non ci fu 
			mai un diretto confronto tra studiosi.
 Fu scritto molto, anche in tempi lontani dal 1799, ma è presente in 
			molti di noi, e disturba, la sgradita sensazione che quanto riferito 
			dal Colletta, dal Botta e dallo stesso Cuoco ( che fu il solo, di 
			quel tempo, al quale si deve riconoscere la "statura" di storico ), 
			abbia sempre influenzato il giudizio degli studiosi, anche nostri 
			contemporanei. Infatti "la verità  documentale", che non fu 
			conosciuta dagli studiosi del XIX secolo, suggerisce conclusioni 
			diverse da quelle sempre note, che varrebbe davvero la pena 
			dibattere.
 La Calabria ed il popolo calabrese furono i protagonisti della 
			controrivoluzione sanfedista, evento che fu in ogni tempo presentato 
			nel suo aspetto pi- deteriore: una masnada di briganti che, per sete 
			di sangue e di rapina, determinò la caduta della Repubblica 
			napoletana: il male ed il bene contrapposti.
 Il condottiero sanfedista? Un bieco reazionario, per giunta prete e 
			Cardinale, che, per motivi che non furono mai ben precisati e 
			documentati, si mise alla testa di 60000 briganti calabresi, non 
			avendo altro ideale che quello di riportare sul trono un Re privo di 
			qualità e di meriti. Gli storici, contemporanei di quegli eventi, un 
			ideale diverso, in verità, al Ruffo glielo riconobbero: mettere sul 
			trono di Napoli suo fratello e su quello di Pietro se stesso. 
			Ovviamente i fatti subito dimostrarono che quelle affermazioni 
			furono un puro esercizio di fantasia.
 Botta, Colletta, Cuoco lo scrissero e trionfalmente riportarono nei 
			loro libri il bizzarro anatema con il quale il Cardinale Capece 
			Zurlo, Arcivescovo di Napoli, colpiva il condottiero sanfedista 
			dichiarandolo " trabalzato da tutti i gradi della gerarchia, 
			separato dalla comunione Cattolica ed esposto alla maledizione di 
			Dio e degli uomini".
 Quel Presule, chiaramente di fede giacobina, dimenticava la 
			prigionia che soffriva in quei mesi Papa Pio VI, il quale morir... 
			poco tempo dopo, il 29 agosto 1799, a Valenza, dove Napoleone lo 
			aveva fatto deportare.
 Si deve far rimarcare che il Cardinale Capece Zurlo, profferendo 
			quella scomunica, lo faceva in piena malafede ed a solo scopo 
			propagandistico, poiché sapeva che quanto contestava al Cardinale 
			Ruffo non corrispondeva al vero.
 Nel dibattito che ci sarà sul 1799 in generale e sul sanfedismo in 
			particolare, i calabresi dovranno essere presenti e protagonisti ad 
			ogni livello e c'Š da augurarsi che siano adeguatamente 
			rappresentati anche e soprattutto i nostri giovani.
 Ci sarà da stabilire  quale ideale mosse i calabresi all'impresa 
			sanfedista e seguire la loro marcia sino allo scioglimento delle 
			"bande", ossia ben oltre Napoli, quando il dimissionario condottiero 
			era già da loro lontano: al Conclave di Venezia.
 Tale traguardo non potrà essere raggiunto, ovviamente, attraverso la 
			rilettura di quanto scritto dai vari autori, illustri o meno, su 
			quell'evento, ma ad esso si dovrà pervenire attraverso una nuova 
			ricerca archivistica estesa a fonti francesi. Gli archivi francesi 
			conservano documenti i quali potranno finalmente chiarire degli 
			altri essenziali "perché", fin'ora non noti:
 - quello che spinse Napoleone a volere a Parigi il Cardinale Ruffo 
			(il generale Miollis il 1 aprile 1808 trasmise al Cardinale, che si 
			trovava ad Amelia, cittadina vicino a Terni, l'ingiunzione di 
			partire entro 24 ore per Parigi, scortato da ufficiali di Dragoni);
 - l'altro che spieghi l'ammirazione che Napoleone ebbe per questo  
			alto prelato, pur mentre teneva prigioniero in Francia il Pontefice; 
			ammirazione resa ancora pi- manifesta dalla decorazione di 
			"UFFICIALE DELLA LEGIONE D'ONORE" della quale Napoleone lo insignì 
			nel 1813:
 - e l'altro ancora che chiarisca quale ruolo svolse il Cardinale 
			Ruffo presso quella Corte imperiale; ruolo che dovette essere bene 
			importante, portato a termine evidentemente con soddisfazione di 
			tutti, se alla decorazione francese, l'anno successivo, il 1814, si 
			aggiunse il regalo di un prezioso crocefisso che il Pontefice Pio 
			VII, finalmente libero dalla prigionia, fece a Fabrizio Ruffo, che 
			lo riaccompagnava a Roma, con "cuore grato e riconoscente".
 La strada da seguire fu, anni addietro, indicata da uno storico 
			nostro conterraneo, di primaria importanza: il compianto prof. 
			Gaetano Cingari.
 Egli purtroppo, nel suo libro "Giacobini e sanfedisti in Calabria", 
			si propose di seguire la marcia sanfedista soltanto sino ai confini 
			della Calabria e lo fece sicuramente libero   dai condizionamenti 
			che bendarono gli occhi ad altri autori, tra i quali alcuni 
			altrettanto illustri.
 Purtroppo il destino non volle lasciargli il tempo di andare oltre 
			come, mi si assicura, aveva il proposito di fare.
 L'ideale, nobile o ignobile che fosse, lo trasmise al popolo il  
			condottiero che concepì e portò a termine quella guerra, che fu vera 
			e propria lotta fratricida, la quale purtroppo non produsse alla 
			fine alcun effetto utile alla Nazione.
 La storia ha riabilitato la figura del Ruffo liberandola, almeno, 
			dalle accuse pi- infamanti, ma sul suo pensiero politico e 
			sull'ideale che determinò il Cardinale a rischiare vita, reputazione 
			e beni morali e materiali, suoi e del suo casato, nulla o molto poco 
			fu detto o scritto.
 Nessuno rimarcò che doveva rientrare in un ben preciso disegno del 
			vincitore la concessione che egli fece, ai vinti repubblicani, di 
			patti di resa tanto onorevoli da trasformarli da "ribelli, traditori 
			della Patria difronte al nemico invasore" - come li aveva definiti 
			la Regina - in esercito combattente.
 Fece ciò pur sapendo di incorrere nella dura censura regia e nella 
			collera del Nelson. Infatti l'ordine di arrestarlo e di trasferirlo 
			alla corte di Palermo fu immediato (27 giugno 1799). Se quell'ordine 
			non fu eseguito fu solo per la paura che, al Re ed al Nelson, 
			incutevano le "bande" calabresi, accampate attorno a Napoli.
 Pochi fecero caso all'atteggiamento assunto da Fabrizio Ruffo,  che 
			si dimise e uscì dal Regno all'indomani della vittoria.
 Il vincitore si considerò, in sostanza, uno sconfitto e come tale si 
			comportò. Lasciando al Nelson il serto della vittoria, ormai intriso 
			del sangue dei patrioti traditi e la vergogna di aver rinnegato i 
			patti di resa, pur firmati da un legittimo rappresentante del Re 
			d'Inghilterra, non volle pi-, negli anni a venire, ricoprire 
			incarichi di governo. Incarichi che il Borbone ritornò ad offrirgli 
			quando, pochi anni dopo, si ritrovò ancora con il Regno dimezzato.
 Coloro che sostennero che nel 1805, dopo la scomparsa dell'Acton 
			dalla scena politica del Regno di Napoli, egli fu Presidente del 
			Consiglio dei Ministri errarono, anche in quella occasione, poiché 
			lo confusero con un diverso Fabrizio Ruffo: il principe di 
			Castelcicala.
 Poiché la storia, come Š risaputo, non emette in nessun caso 
			sentenze definitive, questa è l'occasione per riaprire il "processo" 
			e per accertare finalmente, attraverso un riesame di vecchi e nuovi 
			documenti - oggi, pi- facilmente che ieri, reperibili e consultabili 
			- se quel Porporato calabrese (che, detto per inciso, prete non era, 
			per sua scelta; ne prendano buona nota i sostenitori del Colletta, 
			se ancora esistono), marciando alla riconquista della parte 
			continentale del Regno, non fosse per caso mosso dal nobilissimo 
			ideale di riportare sul trono di Napoli non la vecchia monarchica 
			assoluta, bensì una monarchia costituzionale che, come ammisero il 
			Cuoco e lo stesso Croce, era la sola forma di governo a quel tempo 
			possibile ed a tutti conveniente.
 Perché questa forma istituzionale potesse essere tradotta in realtà 
			concreta, era indispensabile che la riconquista fosse avvenuta 
			attraverso l'azione di forze nazionali. NŠ gli Inglesi, nŠ i Russi e 
			tanto meno i Turchi, alleati a quel tempo dei Borbone di Napoli, se 
			fossero stati i loro eserciti a riunificare il Regno -  lo avrebbero 
			prima o poi fatto poiché corrispondeva al loro interesse - avrebbero 
			consentito la nascita di uno stato democratico.
 Io sostengo, appunto, questa tesi e ritengo di poter dimostrare, 
			attraverso documenti, la sua validità e l'attinenza al vero.
 Ma io non sono uno storico e neppure un erudito di storia e, alla 
			fine, posso anche non essere il pi- idoneo - forse non lo sono 
			davvero -  ad esprimere un giudizio imparziale.
 |