L'Anello di Berenice
di
 
Giovanni Ruffo

 

In casa Ruffo di Calabria, da tempo immemorabile, si usava regalare alla promessa sposa del primogenito, unitamente ad altri tradizionali doni, un anello dalla forma strana, semplice ed irregolare.

Da qualche decennio, però, tutte le donne del Casato portano al dito questo anello.

Sino a due secoli fa, per questo è noto, di questo anello si sapeva soltanto che portava fortuna adornarsene e che proteggeva il casato dall’estinzione, propiziandone la nascita dell’erede maschio. Questo era il motivo per il quale l’anello veniva  offerto alla consorte del primogenito e soltanto da lei portato. Questa tradizione, come molte altre, è scomparsa con l’evolvere dei tempi e la trasformazione dell’ordinamento dello Stato e della società. Ma d’altra parte è anche vero che l’interesse, che in passato una famiglia feudale aveva per la discendenza di sesso maschile, oggi ha assunto significato profondamente diverso, ammesso che nella stessa famiglia un tale interesse persista. E così, mentre in casa Ruffo di questo anello c’era solo un esemplare, come prima ho detto, oggi è facile vederlo al dito di quasi tutte le donne del casato e, come i tempi vogliono, molte tra le più giovani lo portano come semplice ornamento, ignorando addirittura tradizioni e significato.

Nei secoli scorsi, ma anche più di recente, nell’ambito familiare si indicava l’anello con un ben preciso nome: “Pentacolo”. Si può supporre che il nome traesse origine da una piccola stella a cinque punte incisa nella sua fascia interna.

Non avendo notizie certe sull’origine dell’anello e sulla sua espressione simbolica, fu data importanza alla tradizione orale, che lo diceva essere appartenuto ad una dama del Casato elevata nella notte dei tempi a dignità regale e da allora, in ogni generazione, ornamento alla mano della prima dama del casato: la consorte dell’erede.

Ancora la tradizione orale fa risalire la presenza dell’anello nel casato dei Ruffo al tempo dell’Impero romano, discendendo essi Ruffo dalla “Gens Rufa”, a sua volta diretta discendente della “Gens Cornelia”.

Una notizia abbastanza sicura sull’antichità di questo anello, la troveremo più appresso.

Nulla di certo si sa sul significato della stella a cinque punte, che sappiamo incisa sulla fascia interna dell’anello – al quale ha dato il nome – come nessuna interpretazione si seppe mai dare alla insolita e strana  forma dell’anello, il quale è costituito da un cerchio d’oro i cui due bordi, quello superiore e l’altro inferiore, hanno entrambi fattezza bicuspidata e contrapposta, ma alternata sull’altro bordo.

Il “Pentacolo” fu comunque considerato, nell’entourage familiare dello scorso secolo XIX, un “Signaculum fortunae”, come si legge in un inventario non datato né firmato ma che, forse per essere stato rinvenuto in un determinato fascicolo, è attribuito ad un certo notaio Cantilena, il quale sembra abbia esercitato la sua professione a Napoli durante lo scorso secolo. Che un notaio di questo nome sia effettivamente esistito a Napoli è poi cosa certa, poiché nell’archivio Ruffo di Calabria esistono altri documenti a sua firma.

È opinabile che l’anello avesse avuto in ogni epoca significato di portafortuna, poiché per la semplicità della sua fattura non sembra potesse essere stato destinato a simbolo di autorità e dignità.

L’anello dovette godere in passato di buona notorietà e solida reputazione anche fuori dei suoi proprietari, poiché su di esso e sulle sue capacità di proteggere la salute si esercitò sempre la fantasia del popolo, che gli riconobbe, oltre a quella da sempre nota, una nuova capacità positiva specifica: il potere di proteggere i partiti distocici, ossia difficili. Si racconta che nei primi decenni del Settecento, in taluni ambienti di Scilla e di Sino poli, era usanza chiedere in prestito l’anello per “attaccarlo, esclusivamente con la cera d’api” al ventre della gestante, che tardasse a partorire o avesse difficoltà di parto. In questi casi il prestito dell’anello non veniva negato a nessuno e sembra non si sia verificato mai il caso che l’anello non fosse stato restituito. La restituzione era sempre accompagnata da un dono, talvolta anche molto modesto o soltanto simbolico che, se era adatto all’uopo, veniva dalla principessa di Scilla mandato alle Suore di un certo Ordine, le quali avrebbero elevato preghiere per la salute della creatura nata e della puerpera.

Con comprensibile curiosità mi sono domandato perché mai l’anello dovesse essere attaccato al ventre della partoriente soltanto con cera d’api.

Alle più vecchie donne che ho incontrato in Calabria ho chiesto di darmi una spiegazione, ma nessuna di quelle poche ottenute mi è sembrata convincente.

La vecchia maestra di un paese della Locride – ha compiuto i 98 anni ed è arzilla e desta di intelletto -  mi ha dato la spiegazione più erudita: perché  le api secernono la cera da particolari ghiandole addominali. Confesso che non lo sapevo. Con molto rispetto per la vecchia maestra, non mi sembra possa essere una spiegazione convincente, questa sua.

L’anziano farmacista di un paese silano mi prospettò, invece, la possibilità che alla cera fosse riconosciuta azione terapeutica: “l’olio da questa cera ricavato”, mi disse, “veniva una volta certamente usato per curare i reumatismi”. Anche questa spiegazione a me non sembra convincente.

Molto più convincente è stata invece la spiegazione datami da Teresa C., anch’essa novantatreenne, che in casa Ruffo passò molti anni della sua gioventù, e che, a quanto sappia, è la sola oggi vivente ad aver visto applicare l’anello al ventre di una partoriente. Mi disse nel dialetto della sua fanciullezza: < erano contro il malocchio, la cera e l’anello. Ma non si può dire. Don Peppino voleva quel figlio “comu a chi”. Ma se fu malocchio fu “putenti”. Il figliolo nacque morto e Don Peppino rimase con una mano davanti ed una di dietro >.

È la spiegazione più accettabile: alla cera d’api veniva attribuito potere scaramantico. Generico, aggiungo io, considerata la funzione di collante che gli si dava.

Dalla testimonianza di Teresa sappiamo, però, che era possibile anche il fallimento della sua “influenza”. Ma molti lettori, penso, l’avessero già immaginato.

Ci fu bisogno di un terribile evento naturale per avere conoscenze più sicure e riscontro più certo sull’antichità dell’anello.

Il terremoto – che nei primi giorni del febbraio 1783 distrusse gran parte della Calabria meridionale e causò, sulla spiaggia di Scilla, la morte dell’ottantenne principe e conte di Sinopoli Fulco Antonio Ruffo  di Calabria – danneggiò gravemente  anche il castello di Sino poli.

Qualche tempo dopo il principe Fulco Antonio, omonimo nipote ex avo ed erede di quello morto sulla Chianalea di Scilla, per tentare di consolidare quanto rimaneva a Sinopoli del più antico castello della sua famiglia ne fece rimuovere le macerie. Nella parte sud-est del maniero, la più danneggiata, nel luogo dove sorgeva la cappella comitale dal sisma completamente distrutta, rimuovendo quel che rimaneva del pavimento fu trovato un vecchio sepolcro contenente delle ossa umane, che fu stabilito fossero quelle di una donna. Questo ritrovamento , non so perché, sembra essere stata la causa dell’abbandono dei lavori.

Tra quelle ossa furono rinvenuti un anello ed una “catenina” con medaglia, entrambi d’oro. Su una faccia della medaglia erano effigiate le armi dei Ruffo di Calabria conti di Sinopoli e sull’altra la lettera “M” e sotto, in posizione eccentrica, un cerchio, che ad un primo esame non sembrò avere significato grafico, come per esempio quello di rappresentare una lettera dell’alfabeto.

L’anello era identico a quello sopra descritto.

Dopo molte incertezze, un attento studio della medaglia permise di avanzare un sospetto sul nome da dare ai resti mortali rinvenuti nel castello: Margherita di Pavia. Margherita fu figlia unigenita di Messer Carnelevario di Pavia, signore in Calabria di ricchissimo feudo.

Margherita sposò Falcone Ruffo di Calabria intorno al 1253 e da quel matrimonio nacquero tre figli: Enrico, Aloisa e Falcone (detto Falchetto), forse nato dopo la morte del padre.

Con il matrimonio Falcone unì alle sue terre di Santa Cristina e Placanica, donategli da Federico II nel 1247, quelle della moglie, acquistando notevole potenza feudale.

Tra i suoi feudi vi era anche quello di Sino poli, nel cui castello abitarono i suoi discendenti per molti secoli.

Falcone Ruffo di Calabria, nato a Tropea intorno al 1233 da Ruggero e Belladama, ancora giovanissimo fu armato cavaliere dall’Imperatore Federico II nel 1247. Caro all’Imperatore era stato valletto e rimatore presso quella corte imperiale. Della sua produzione poetica rimane una sola canzone amorosa, riportata dal Torraca nel suo volume “Studi sulla lirica italiana del duecento ”.

Falcone fu un valoroso cavaliere. Per il suo coraggio e la perizia di capitano si distinse nella guerra contro Manfredi. In difesa dei diritti di Corradino, legittimo erede al trono di Sicilia, egli si oppose all’esercizio inviatogli contro da Manfredi, combattendolo per più di due anni dai castelli di Bovalino e Santa Cristina.

Non si conosce la data di morte di Falcone. Si sa però con certezza che essa avvenne tra il 1258 ed il 1266.

Falcone fu il capostipite di tutte le linee dei Ruffo oggi viventi, essendosi estinta la Linea primogenita dei conti di Catanzaro nell’ultimo ventennio del XV secolo.

Neppure di Margherita di Pavia si conosce la data di morte. Da documenti archivio si sa però che era ancora in vita nel febbraio del 1303.

Per dovere di chiarezza occorre però precisare che alla moglie di Enrico, primogenito di Falcone Ruffo e Margherita di Pavia, si chiamò Margherita di San Lucido – apparteneva al Casato dei signori di Maida – per cui non si può invece escludere che l’anello rinvenuto potesse essere appartenuto a lei invece che alla suocera.

A questo punto mi sembra interessante riferire quel poco che si sa sull’interpretazione data ai “segni grafici” trovati incisi sulla medaglia.

Su una faccia vi erano raffigurate le armi dei Ruffo di Calabria  a quel tempo Signori di Sinopoli ed altre terre, ancora in quella Linea non titolati: uno scudo (troncato) con cinque punte (cuneato) con il capo caricato  di tre conchiglie ordinate in fascia. Non c’era cimiero. Pur privo di cimiero, era lo stemma da sempre usato da quella Linea dei Ruffo. L’identico stemma si vede ancora oggi nella Chiesa di San Francesco in Gerace, scolpito sul sarcofago di Nicolò Ruffo di Sinopoli - Bovalino, che morì nel 1372, ossia circa settanta anni dopo Margherita di Pavia.

Lo studio dell’altra faccia della medaglia permise di risalire al nome Margherita – che solo più tardi si suppose potesse essere Margherita di Pavia – non tanto per la lettera “M”, ma soprattutto per il “cerchio ”, nel quale fu riconosciuta una “perla”, il cui nome latino è appunto “margarita”.

Questa sembrò essere una valida conferma della fondatezza della tradizione orale, che diceva antichissimo l’uso dell’anello, perché consentiva di affermare con relativa  certezza che le donne di Casa Ruffo lo portavano al dito già nel XIII secolo. Se si vuole poi dar credito alla tradizione che l’anello fosse appartenuto originariamente ad una Regina di Casa Ruffo, si potrà definirlo “l’anello di Berenice” che è il nome che oggi gli danno le giovanissime donne di  questo casato. Berenice, bellissima figlia di Giovanni Falcone Ruffo, fu infatti la sposa di Basilio I (812 - 886) Imperatore d’Oriente.

Sarei tentato di aggiungere alcune considerazioni “storiche” sull’anello e sulla medaglia, ma reputo sconveniente dare ad una storia, che sa tanto di favola, un ornamento “documentale”.

Mi fermo dunque a questo punto, ripetendo che di reale in questa storia non vedo altro che l’anello e la medaglia. La tradizione orale – alla quale non negherei valore se fosse stata riferita ad “eventi ” meno antichi -, la superstizione popolare, i poteri protettivi e propiziatori attribuiti all’anello, fanno di questa storia una favola adatta ad essere raccontata nelle fredde sere invernali seduti intorno al braciere, con le spalle coperte dal “vancale”, con il bicchiere di vino sul tavolo accanto, così come faceva – lo ricordo con particolare commozione – il vecchio Fortunato quando, dopo una giornata di duro lavoro nei campi, mi raccontava tanti e tanti anni fa le sue meravigliose storie.