I Ruffo presso la corte di Federico II


Sui Ruffo che vissero nel XIII secolo fu scritto tanto ed in ogni epoca, poiché a quel tempo questo casato era autorevolmente rappresentato presso la corte imperiale.

Scrissero storici –anche di chiara fama- che attingevano da genealogisti improvvisati notizie genealogiche inesatte e fantasiose, tanto è vero che confusero in una sola persona (protagonista di eventi storici che coprivano un arco di tempo di più di cento anni) avo e nipote dello stesso nome, come dirò più avanti.

Per ben conoscere il ruolo che i Ruffo ebbero nel XIII ed alla corte imperiale   occorre almeno accennare alla vita di corte che si svolgeva all’ombra dell’Imperatore.

Il caso volle che nascesse a Iesi. Sua madre Costanza - ultima erede della dinastia Normanna - mentre ritornava dalla Germania fu, in quei pressi, colta dalle doglie del parto. Era il 26 dicembre del 1194.

Dalla madre gli fu dato il nome di Costantino ma, in baptismo, quel nome fu mutato in Federico Ruggero: il nome dei suoi avi, il tedesco Barbarossa ed il normanno Ruggero II.

Imperatore e Re si chiamò Federico II.

I suoi contemporanei lo definirono "stupor mundi", meraviglia del mondo, e      "immutator mirabilis", meraviglioso trasformatore. Ma "stupor mundi", nel linguaggio di quei tempi, significava anche "sovvertimento dell'ordine costituito, che genera paura e confusione"!

Giovanni Villani, cronista fiorentino (1280-1348), nella sua "Nuova cronica" fece questo ritratto di Federico II di Svevia:

"Questo Federigo regnò trent'anni Imperadore, e fu uomo di grande affare e di gran valore. Savio di scrittura, e di senno naturale, universale in tutte le cose. Seppe la lingua latina, e la nostra volgare, tedesco e francesco, greco e saracinesco e di tutte virtudi copioso. Largo e cortese in donare, prode e savio in arme, e fu molto temuto. E fu dissoluto in lussuria in più guise e tenea molte concubine e mammalucchi a guisa de' saracini. In tutti i diletti corporali volle abbondare, quasi vita epicurea tenne, non facendo conto che mai fosse altra vita. E questa fu l'una principale cagione perché venne nemico de' chierici e di Santa Chiesa".

Vagamente somigliante al personaggio reale, è un ritratto che risente chiaramente di varie influenze: clima politico degli anni che seguirono ai vespri siciliani; le fonti alle quali l'ex mercante fiorentino, diventato cronista, si ispirò.

Più vera ed in maggiore accordo con quanto scrissero molti autori - alcuni contemporanei dell'Imperatore - è la descrizione che diede fra Simone da Parma (1221-1287), il quale conobbe di persona Federico II:

"Era un uomo scaltro, avaro, lussurioso, collerico e malvagio. Di tanto in tanto tuttavia rivelava anche buone qualità, quando era intenzionato a fare mostra della sua benevolenza e liberalità: sapeva allora essere amabile, gentile, pieno di grazia ed esternava nobili sentimenti. Leggeva, scriveva, cantava e componeva melodie. Era bello e ben fatto, sebbene di non alta statura. Io una volta lo conobbi e per un certo tempo anche lo onorai".

La lettura della cronaca di questo monaco, giunta sino a noi forse autografa, ed il ritratto che fa dell'Imperatore, mi fanno però venire in mente che egli nel 1247 fuggì da Parma assediata da Federico, per esulare in Francia in cerca di soccorso.

Ancora più completa e storicamente più veritiera è la descrizione che di Federico II fece Michele Amari ne' "La guerra del vespro siciliano": "[...] pro' nelle armi, sagace e grande nei consigli, promotor delle scienze e delle lettere italiane, costante nemico di Roma. Raffrenò Federigo i feudatari, che nella fanciullezza sua si eran prevalsi; chiamò nei parlamenti nostri i sindichi delle città; represse nondimeno gli umori di repubblica; riordinò vigorosamente i magistrati; vietò, primo in Europa, i giudizi ch'empiamente chiamavan di Dio; dettò un corpo di leggi, ristorando o correggendo quelle dei Normanni; le entrate dello stato ingrossò, e troppo. Macchiano la sua gloria, severità e avarizia nel governo; e mal ne lo scolpa la necessità di tender fortissimo i nerbi del principato, per aiutarsene alla guerra di fuori".

A distanza di sette secoli, una considerazione può fare cornice a quanto scritto in tutto questo tempo su Federico II - e sugli Hoenstaufen in genere -:

un Papa creò Federico Imperatore e Re: Innocenzo III, grande Pontefice ed accorto uomo di stato; un altro Papa, poco dopo la morte dell'Imperatore, la dinastia degli Hoenstaufen letteralmente distrusse: Urbano IV, al secolo il francese Jacques Pantaleon, scialba figura di nessun rilievo nella storia della Chiesa. 

Questo fu essenzialmente Federico II e tanto uomo non poteva che avere attorno a sé una corte altrettanto grande e meravigliosa.

Per alcuni suoi aspetti, la decantò anche Brunetto Latini, che ebbe modo di frequentarla. Una corte da sovrano orientale, scrissero molti contemporanei colpiti dall'aspetto più appariscente, il quale costituiva solo un "contorno" destinato essenzialmente ad impressionare le plebi. Ed i Papi, che avrebbero avuto ben altre accuse da muovere a Federico, quando vollero contro di lui far leva sul popolo, lanciando i loro anatemi a quell'aspetto della corte fecero riferimento. Altro dava lustro e rendeva unica al mondo la corte imperiale, che riconosceva nell'Imperatore, assiso sul trono della giustizia, l'unica fonte del diritto! Questo splendore sfuggiva alle masse, ma era ben percepito dagli uomini di "senno": a corte viveva ed operava il fior fiore degli uomini di cultura di quel tempo. Diversi per nazionalità, razza , religione; della più varia estrazione sociale, in gran parte giovani o addirittura giovanissimi, in comune avevano tutti la sete di apprendere o d'insegnare. A corte vigeva il concetto che " colla scienza si acquista fama, con la fama si arriva all'onore distinguendosi dagli altri, e con l'onore si consegue la ricchezza ". Non per nulla Pier delle Vigne poteva scrivere ad un amico: "A corte hanno le mammelle della retorica dato latte a molti spiriti eletti".

Mentre presso la cancelleria imperiale, vera scuola di "ars dictandi", la vita letteraria di corte aveva il suo cenacolo, attorno e direttamente a contatto con l'Imperatore, invece, fiorivano particolarmente gli studi scientifici e quelli dell'arte militare, unitamente a quelli letterari ai quali, in questo caso, era riconosciuto valore propedeutico. Taluni giovani ritenuti specificatamente dotati - ai quali maestri della statura di Pier Delle Vigne e di Michele Scoto avevano già aperto vasti orizzonti letterari - qui erano istruiti nelle discipline scientifiche seguendo metodi in parte empirici, affinché fossero stimolati all'osservazione diretta, perché l'uomo dotto -sosteneva l'Imperatore- per ben riuscire nello studio delle scienze deve "cominciare di nuovo a guardare coi propri occhi", ed acquisire la capacità di dare al "vedere" compiuta espressione.

Presso questa corte, dove trionfava la cultura laica che trovava per la prima volta forma ben definita, si andava forgiando un nuovo genere di cittadino capace, in ugual misura, di imprese guerresche o intellettuali; i funzionari non si identificavano, come un tempo, con il ceto feudale e tanto meno con quello dei chierici, ma erano scelti direttamente dall'Imperatore tra i più eletti delle diverse discipline. Di conseguenza rivestire la dignità di funzionario non costituiva un "beneficium" bensì un "officium" e per tale motivo non soltanto erano inconcepibili le cariche ereditarie, ma lo sviluppo delle carriere avveniva solo ed esclusivamente per merito.

A corte vissero tra gli altri dignitari alcuni membri del casato dei Ruffo che, per essersi distinti nelle lettere, nelle scienze o nell'arte militare, furono molto vicini e particolarmente cari all'Imperatore.

Gli storici, antichi e moderni, che giustamente non dettero e non danno importanza al "particolare", che non abbia avuto influenza determinante sul corso degli avvenimenti, scrissero e scrivono che il primo Ruffo del quale si abbia notizia storica sia stato un certo Pietro, del quale il Prof Michele Amari -ancora fervente fautore dell'autonomia regionale siciliana, quando nel 1843 pubblicò il suo libro "la guerra del vespro siciliano"- fece questo ritratto: "Sedea viceré in Sicilia da molti anni, e governava sì le Calabrie, Pietro Rosso o Ruffo. L'Imperator Federigo, da vil familiare l'avea levato a' sommi gradi, com'avviene in corte ai più temerari e procaccianti [...] Sappiamo ch'ei ritornò nel regno dopo la vittoria di Carlo d'Angiò e che questi provvide di rendergli i beni".

Sono notizie assolutamente e grossolanamente inesatte, che l'Amari ricavò dalla "cronaca" dell'Anonimo, cronista coevo di questo Pietro Ruffo, senza preoccuparsi di cercare alcuna conferma. Eppure all'Amari, uomo d’alto livello culturale, fu certamente nota la riconosciuta scarsa attendibilità dell’Anonimo, storico solo per esigenze del momento e, a quanto sembra, notaio di professione. La figura del Ruffo, fu poi tutt'altro che marginale, negli eventi dei quali l'Amari si accingeva a scrivere. Questo avrebbe dovuto stimolarlo almeno a stabilire chi fosse stato realmente l'uomo portato così in alto da un Imperatore che, come si è sempre saputo, ai suoi funzionari assegnava gli incarichi esclusivamente per merito!

Si sarebbe accorto che il casato al quale apparteneva il viceré del regno di Sicilia, si denominava già da secoli Ruffo e non Rosso (una famiglia di nome Rosso viveva in effetti a quei tempi a Messina) e che, da altrettanti secoli, questa famiglia usava aggiungere al cognome l'appellativo "di Calabria". Ma, cosa storicamente molto più importante, avrebbe scoperto che il Pietro Ruffo del periodo angioino non era, come egli credeva, la stessa persona del Pietro Ruffo Viceré dei tempi di Federico II - quest'ultimo Pietro morì a Terracina nel gennaio del 1257, per mano di un sicario di Manfredi - bensì un nipote (ex avo) del primo, di cui portava il nome!

I Ruffo erano presenti nella corte fridericiana già al tempo del ritorno di Federico dalla Germania. In un privilegio dell'ottobre 1223 tradotto dal greco (Paolucci,Documenti inediti del tempo svevo, Atti acc. Palermo, ser. III, vol.4, p.38, n. IX) è riportata la nomina a "Vallectus camere" di Ruggero de Gervasio, figlio del cavaliere Gervasio Ruffo di Sciacca. La provenienza da Sciacca, città della provincia agrigentina, fece pensare che questa famiglia fosse di origine diversa da quella dei Ruffo di Calabria. Nulla di più errato: presso l'archivio privato dei Ruffo di Calabria principi di Scilla -quella parte affidata in custodia all'archivio di stato di Napoli- esiste, infatti, un privilegio di re Ruggero II (1095-1154), datato aprile 1146, con il quale si concedevano al Cavaliere calabrese Gervasio Ruffo (evidentemente avo di quello vivente nel 1223) le terre di "Minzillicar e Chabucas" site nel tenimento di Sciacca. Tale documento si riproduce in appendice, fornendone la traduzione.

Ma i Ruffo, che più si distinsero a corte, furono Pietro I, suo figlio Giordano ed il nipote Fulcone (noto anche come Folco).

A corte vivevano altri due figli di Pietro I: Ruggero e Serio; un altro nipote Pietro II (lo stesso il cui nome ha generato tanta confusione nei contemporanei e quindi nei posteri), fratello di Fulcone ed un cugino Guglielmo, con il figlio Riccardo.

Pietro I Ruffo di Calabria nacque verosimilmente a Tropea intorno al 1188 da Giordano ed Agnese, che apparteneva allo stesso casato del marito. Non è documentato in quale anno Pietro I entrò al servizio  dell'Imperatore, ma è verosimile supporre che egli fu il primo dei Ruffo ad arrivare a corte e dunque prima del 1223.

Documenti noti lo fanno trovare combattente in Lombardia prima del 1235 e già in posizione d’elevato prestigio. Altri documenti lo portano viceré in Sicilia nel 1235 e di nuovo nel 1239, dopo suo genero Guglielmo di Borrello, marito di sua figlia Adriana. In tale carica rimase sino al 1242. Nel 1243 fu creato Imperialis Marescallae Magister. Nel 1249 Federico II gli affidò la tutela del suo giovanissimo  figlio  Enrico, che da quel momento  visse  con Pietro I nel palazzo reale di Messina. Alla morte dell'Imperatore Pietro I Ruffo di Calabria era Marescallus totius regni siciliae, balio di Enrico e come tale vice balio di Sicilia e Calabria, essendone balio, per volontà testamentaria, Manfredi, figlio naturale dell'Imperatore. Molti autori scrissero che tra i testimoni che firmarono il testamento dell'Imperatore vi furono Pietro I Ruffo (nell’immagine) e suo nipote Fulcone. Questa affermazione è solo in parte esatta. Fulcone fu certamente presente alla morte di Federico, il 13 dicembre 1250, e due giorni prima aveva firmato in effetti il testamento, ma non fu Pietro I l'altro testimone bensì Sigerio, suo figlio. Sigerio a quel tempo rivestiva la carica di Magister Marescallus ed infatti nel testamento di Federico, pubblicato da P. Ottavio Gaetano, si legge "Ego.....Ruffus de Calabria Maniscallae magister rogatus etc." non essendo leggibile il nome. Il nome Pietro fu di propria iniziativa aggiunto dal Gaetano senza tener conto che la qualifica di "Magister Marescallus" chiamava in causa Sigerio ed escludeva Pietro I che, firmando il testamento, non avrebbe mancato di qualificarsi "Marescallus totius regni Siciliae", se non addirittura Comes Catanzarii.

Corrado IV, erede dell'Impero e del regno di Sicilia, dopo la morte dell'Imperatore confermò Pietro I  viceré di Calabria e Sicilia, confermandolo altresì nella titolarità della contea di Catanzaro. In tale veste di viceré, dopo l'improvvisa morte di Corrado IV, avvenuta nel maggio del 1254, Pietro I difese le volontà testamentarie di Federico II contro Manfredi e contro il Papa, sostenendo la legittima successione di Corradino, figlio di Corrado IV. Morì assassinato da un sicario di Manfredi nel gennaio del 1257. Su questo personaggio si scrissero, nel corso dei secoli, le cose più disparate. Talvolta furono frutto di fantasia che nasceva dalla cattiva volontà o impossibilita di reperire nuovi documenti. Soltanto intorno alla metà del XX secolo gli studi del Prof. Ernesto Pontieri consentirono di far luce su Pietro I e su suo nipote Pietro II Ruffo di Calabria, che per tanti secoli erano stati confusi in una unico personaggio dai contorni incerti e contraddittori. Il Pontieri non fu certamente il solo a ricercare la verità, ma fu lo storico più autorevole.

Prima del Pontieri più o meno alle stesse conclusioni era pervenuto il duca Vincenzo Ruffo della Floresta e le aveva pubblicate nel 1914. Ma Vincenzo fu solo uno studioso di storia, non uno storico e portava un cognome che poteva farlo credere di parte.

Purtroppo il Pontieri non condusse personali ricerche genealogiche sui Ruffo vissuti nel XIII secolo. Fu un errore perché le notizie, fornitegli da altri, furono confuse e talmente contraddittorie da non consentire la ricostruzione di una sequenza genealogica compatibile con tempi ed eventi.

Fulcone Ruffo di Calabria nacque a Tropea intorno al 1231, secondogenito di Ruggero e Belladama, della quale non si conosce il casato. Ruggero fu il primogenito di Pietro I e Guida e premorì al padre, lasciando erede suo figlio Pietro II (che continuerà la linea dei Ruffo conti di Catanzaro). Fu questa la ragione di tanti errori poiché, essendo passati direttamente dall'avo al nipote dello stesso nome titoli ed onori, gli storici trovarono protagonista di ogni evento un Pietro Ruffo conte di Catanzaro, ininterrottamente dal 1235 al 1310 e pensarono trattarsi della stessa persona!

Com’era uso presso quella corte, Fulcone iniziò la carriera come valletto imperiale a 14 anni, ossia intorno al 1244. Dovette essere dotato di particolare ingegno e di non comuni capacità d’apprendimento se ancora giovanissimo lo troviamo, non ultimo, tra i rimatori di quella scuola. Furono certamente queste qualità che richiamarono su di lui l'attenzione e l'affetto di Federico II, che lo volle accanto a sé fino all'ultimo suo giorno di vita. Addirittura, poche settimane prima della morte dell'Imperatore, ebbe da questi alcuni possedimenti in feudo (Santa Cristina e Pracanica), che erano appartenuti al filosofo di corte maestro Teodoro. A conti fatti quando morì l'imperatore Fulcone Ruffo non doveva avere ancora 20 anni.

Francesco Torraca, nella sua opera "Studi su la lirica italiana del duecento" (Bologna Zanichelli 1902) a pag. 127 scrive:

"Una sola lirica di messer Fulcone di Calabria è giunta sino a noi; ma egli occupa non ultimo posto nella storia. Somiglia, per l'una cosa e per l'altra, ad Arrigo Testa. Nipote di Pietro Ruffo conte di Catanzaro, cugino o fratello del cavaliere Giordano Ruffo autore del "liber mascalciae", assistette agli ultimi istanti del grande Imperatore, del quale firmò il testamento".

Penso valga la pena soffermarmi a descrivere l'ambiente di corte, nel quale vivevano e maturavano esperienze di vita e di dottrina i valletti imperiali.

Nella scelta dei valletti o dei funzionari Federico II non dava importanza alla loro nascita, alla provenienza sociale o al colore della pelle, ma molto contavano le doti e le qualità personali. Un esempio per tutti: Giovanni Moro, figlio di una schiava saracena, ebbe a corte una posizione di rilievo, fece parte della "familia" e ricevette una baronia. Per quanto concerneva i valletti, numerosissimi erano tra questi i rampolli della nobiltà cavalleresca, ma anche sulla loro carriera era ininfluente la potenza o la ricchezza della famiglia dalla quale provenivano. I valletti (tra questi vi erano anche i figli di Federico II) vivevano a diretto contatto con l'Imperatore e ricevevano una educazione cortese cavalleresca - a noi resa nota dalla poesia di quel tempo - unitamente a quegli insegnamenti che, da adulti, avrebbero fatto di questi adolescenti dei perfetti funzionari statali. La presenza di un gran numero di nobili tra i valletti trova spiegazione in una particolare circostanza: un nobile non poteva diventare cavaliere se prima non avesse servito come valletto. Dunque i rampolli della nobiltà regnicola passavano a corte gli anni della giovinezza e, come valletti, entrando a far parte della "familia", ricevevano un mensile di sei once d'oro ed il diritto di avere al servizio tre scudieri con relativi cavalli. I valletti rappresentavano il gradino più basso della gerarchia cavalleresca ed avevano a capo un siniscalco. Non avevano mansioni precise: erano destinati in particolare a servizi di "tipo cavalleresco".

Cessavano il servizio a corte quando si fossero guadagnato il cingolo cavalleresco. Andavano allora a ricoprire, ancor giovani, cariche amministrative importanti o servivano nell'esercito o ritornavano nei loro feudi. Altri erano avviati agli studi universitari. In ogni caso l'essere stati partecipi della vita di corte dava loro un grande prestigio ed apriva molte carriere. Al padre di un valletto scrisse una volta l'Imperatore: " Noi abbiamo accumulato su di lui i rudimenti delle virtù, affinché si sentisse degno di sé, agli altri utile e a noi fruttuoso".

In tale ambiente fu educato Fulcone Ruffo. Non fa dunque meraviglia che, sicuramente neppure diciottenne, fosse annoverato tra i più apprezzati rimatori e ricevesse direttamente dall'Imperatore l'investitura di cavaliere e la titolarità di feudi.

Trovano legittimazione anche gli incarichi importantissimi che Fulcone ebbe negli anni 1251-52 quando in Istria firmò come testimone concessioni imperiali ed attese a ricevere il novello Imperatore Corrado IV. Nel 1254 fu, dal suo avo Pietro I, posto a capo degli ambasciatori inviati al Papa.

Come soldato fu lodato persino dall'Anonimo - cronista denigratore del casato dei Ruffo - quando sotto le mura di Aidone fermò l'impeto di quell'esercito, che stava per travolgere le truppe al comando del suo avo. E lo stesso Anonimo non seppe trovare che espressioni di rispetto quando narrò di Fulcone che, arroccato nei suoi castelli di Bovalino e Santa Cristina, tenne testa per quasi due anni all'esercito di Manfredi.

Nel 1253 Fulcone sposò Margherita di Pavia, figlia di Messer Carnelevario, dalla quale ebbe i figli Enrico e Fulco II. Nel 1266 non era più in vita.

A Corte viveva un terzo Ruffo: Giordano, figlio cadetto di Pietro I e Guida. Anch'egli era nato a Tropea intorno al 1213. Grande dovette essere la stima che l'Imperatore ebbe di questo cavaliere se lo destinò e lo sostenne proprio negli studi scientifici e segnatamente in quelli delle scienze naturali, discipline nelle quali lo stesso Federico eccelleva. Giordano non deluse il suo Signore poiché, mentre l'Imperatore attendeva alla stesura del suo trattato di falconeria, "De arte venandi cum avibus", egli scriveva un trattato di medicina veterinaria " De medicina equorum ", che a quei tempi creò grande scalpore negli ambienti scientifici ed in ogni altro luogo dove si allevassero cavalli. L'interesse per quest’opera, in verità, non fu di breve durata perché per secoli il libro fu tradotto in molte lingue e sei secoli dopo la sua pubblicazione addirittura fu adottato dall’Università di Padova! L'edizione patavina del 1818 fu curata da Hieronymo Molin, professore di medicina veterinaria presso l'Ateneo di Padova. Egli pubblicò il codice di Giordano, al quale diede il titolo di      " Hippiatria ", in lingua latina, nella quale dovette essere stato originariamente scritto. La traduzione in volgare fu realizzata subito dopo la divulgazione del codice in latino perché, come ho avuto occasione di far notare in un mio recente scritto, il libro di Giordano era destinato non soltanto agli studiosi di medicina veterinaria, ma soprattutto a coloro che vivevano quotidianamente a contatto con il cavallo: gli stallieri. La versione in lingua volgare era dunque destinata ad ambienti meno eruditi.

Con poca fatica in verità, grazie al determinante e generoso aiuto fornitomi dal Prof. Italo Calma docente alla facoltà di medicina dell'Università di Liverpool, ebbi la possibilità di procurarmi i films di cinque copie di questo codice, conservate nella " The British Library " di Londra.

Questi volumi hanno due diverse provenienze. La prima deriva da una traduzione dal latino operata da Fra Gabriele Bruno ed ebbe tre edizioni: Venezia 1492: Venezia 1554; Brescia 1611. La seconda ebbe soltanto due edizioni: Venezia 1561, stampata da Rutilio Borgominiero; Bologna 1561, stampata da Giovanni de’Rossi. Presso questa stessa biblioteca si trova un sesto esemplare del libro di Giordano: è quello curato dal Molin. Di questa edizione parlerò brevemente poiché essa rappresenta la "ricostruzione" più completa e scientificamente più corretta dell'opera di Giordano Ruffo di Calabria, che nel corso dei secoli subì numerose manomissioni a volte persino prive di valore scientifico. Il Molin ebbe il grande merito di ridare al libro di Giordano dignità scientifica, emendandolo da aggiunte ed anche da errori, se riferibili ad altri. Egli studiò tutto quanto riuscì a trovare sull'opera di Giordano e, con metodo ineccepibile e grande rigore scientifico, corresse soltanto quei capitoli dei quali accertò sicura manomissione.

Il Molin dovette avere la ventura di trovare molti documenti su Giordano Ruffo, se potette con queste parole descriverlo, nella prefazione alla sua edizione:   " Nato in Calabria da famiglia Equestre, ebbe sin da fanciullo un'indole piacevole e bellissima.

Sembrava fatto dalla natura principalmente per l'attività equestre, nella quale, con il passare del tempo, fece tanti progressi che, nel domare e nel governare i cavalli, e nel curare mirabilmente le loro malattie, non ebbe uguale alcuno."

Il trattato di mascalcia di Giordano è oggi una valida e pratica conferma a quanto, come ho scritto più sopra, affermava Federico: "occorre dare una buona istruzione teorica all'allievo e contemporaneamente abituarlo ad osservare i fenomeni naturali onde, prendendone coscienza, possa interpretarli alla luce delle cognizioni teoriche acquisite". Infatti uno dei capitoli più affascinanti di questo codice - anche perché a quel tempo costituiva qualcosa di assolutamente nuovo - è il quinto nel quale vengono trattati i vizi di atteggiamento e di deambulazione del cavallo, i quali comportano come conseguenza un maggior lavoro e dunque un maggior affaticamento di un arto nei confronti degli altri. E’ altresì ricordato che di ciò si dovrà tener conto in varie occasioni, per esempio nella ferratura degli zoccoli e nell'impiego dell'animale. Chiaramente a simili conclusioni si poteva pervenire soltanto attraverso una buona conoscenza dell'anatomia.                                                                                                                                                                                                                              In altri capitoli è descritta per la prima volta la preparazione dello zoccolo del puledro alla ferratura, che si farà in età adulta ed ancora per la prima volta si sente parlare di etiologia e di patogenesi delle malattie. Eppure quelli erano tempi nei quali, per spiegare la genesi e l'evoluzione di molte malattie, si faceva riferimento alle fasi lunari, alla negromanzia etc.!                                        In un codice pergamenaceo, in perfetto stato di conservazione, che risale al XIII secolo - oggi fa parte di una collezione privata - ho letto                                                                                             " Questo compose con immensi studi un nobile calabrese, che di tutti i cavalli ben conosceva le medicine: ciascuno leggendo impari ".      

Per fornire ai giovani storici e genealogisti notizie attendibili sulla genealogia dei Ruffo vissuti nel XIII secolo, riproduco qui di seguito notizie tratte da documenti d’archivio.   

 

    Albero genealogico dei Ruffo di Calabria vissuti nel XIII secolo

        Giordano Ruffo di Calabria + Agnese Ruffo

_____________________________________________________

                         "

                   n 1188 Pietro (I) + Guida

                   +1257        1209

---------------------------------------------------------

     "              "        "    "                "     

n1213 Giordano* Sighelgaida  " Adriana  n1214 Serio (o Sigerio)**

+1253             (?) n1239  "                                                                           "               

                    n1209 Ruggero + Belladama n1212

                                 1230          +1291

_______________________________________________________________

                   "        "       "            "         "    

               Giordano***  "    Guglielmo;   Giovanni;    "

                 n1234      "                              "

                 +1255      "                              "

                            "                              "

              n1230 Pietro (II) + Giovanna d'Aquino        "

              +1310        1254                            "

__________________________________________________         "

 "   "   "  "   "   "         "                        "

Carlo"Giordano  "Tommaso" n1255Giovanni+F.ca di Licinardo  "

     "          "       "    (linea dei Ruffo Conti di     "

     "          "       "     Catanzaro)                   "

     "          "       "                                  "

Belladama    Jacopa  Clarice                               "

                                                           " 

                             **** n1231 Fulcone (I) + Margh.ta di PV

                                 +1256/1266 (?)   1253

                                          ______________________________

                                 "                 "

                         n1254 Enrico  *****n1255 Fulcone (II) +1276

                                                                 

*    Autore del trattato d’Ippiatria "De medicina equorum" (1250)   

**   Fu Maestro Maresciallo di Federico II. Firmò come testimone il testamento dell'Imperatore (assieme al nipote Fulcone)

***  Fatto prigioniero da Manfredi fu fatto morire durante la prigionia

**** Fu il rimatore della scuola poetica siciliana. Fu il capostipite dei Ruffo di Calabria conti di Sinopoli (poi principi di Scilla).

Tutti i Ruffo oggi viventi, divisi in vari rami, discendono da questo Fulcone (si trova anche come Fulco e Fulcone). Firmò come testimone il testamento di Federico II.

*****Sostenne, nel 1276, un duello con Simone di Monfort, fratello di Giovanni conte di Squillace. Nello scontro morirono entrambi i duellanti.   

Di Fulcone Ruffo di Calabria è arrivata sino a noi una sola canzone, conservata nel Codice Vaticano 3793.

Di questa canzone ci furono numerose e varie "ricostruzioni", operate su frammenti talvolta di difficile interpretazione e d’insicura collocazione. Anche l'interpunzione fu oggetto di perplessità. E' certo, comunque, che molti versi appaiono evidentemente corrotti e non fu mai possibile, a nessuno dei molti editori che ci provarono, ricostruire quei versi - rispettando metrica ed  intelligenza - senza troppo allontanarsi da quanto riportato nel Codice.

La canzone di Fulcone, comunque ricostruita, non ebbe una critica sempre favorevole. Il grande De Sanctis nella sua "Storia Letteraria" la definì "rozzissima", senza aggiungere commento. Forse volle fare riferimento al tema convenzionale, manieroso nello svolgimento e scarso di contenuto poetico. Critica più benevola ebbe dal non meno grande Francesco Torraca, le cui espressioni ho riportato nel testo e da molti altri autorevoli studiosi.

Trascriverò i versi della lirica di Fulcone. Per evitare il commento, che risulterebbe lungo e forse anche fuori posto, aggiungerò una libera "interpretazione" dei versi; ma prima di farlo desidero formulare una mia riflessione: la non corretta conoscenza della genealogia dei Ruffo vissuti nel XIII secolo, ha avuto influenza, spesso determinante, sui giudizi e le notizie che in ogni epoca furono dati sui personaggi di questo casato e sugli avvenimenti che li videro protagonisti.

Il genealogista cui si fa maggiore riferimento è Francesco Scandone (che genealogista non fu). Ai suoi studi s’ispirarono Autori del calibro di Pontieri e Torraca. Lo Scandone diede di Fulcone queste due notizie inesatte, che hanno avuto tra le altre conseguenze anche quella di rendere impossibile, per esempio, una credibile definizione dell'età del personaggio: l'essere stato egli nipote ex frate di Pietro I, mentre, in effetti, fu nipote ex avo; l'essere morto nel duello che ebbe con Simone di Monfort nel 1276, mentre da documentazione certa sua moglie Margherita di Pavia risultava vedova già nel 1266!

Oggi si sa con certezza che il Fulcone (II), che si batté in duello con il Monfort, fu il figlio  secondogenito di Fulcone (I) il rimatore e che a quel tempo Fulcone II aveva soltanto 20 o 21 anni (era stato armato cavaliere da Carlo I d'Angiò nel 1272 "assieme ad altri 50 giovani della migliore aristocrazia del Regno"). Ne deriva di conseguenza che quando Fulcone scrisse la poesia, che mi appresto a trascrivere, aveva un'età che andava dai 14 ai 17 anni (ne avrebbe avuto 38 o 40, se fosse stato figlio di un fratello di Pietro I) e quando morì aveva età tra i 26 i 36 anni (ne avrebbe avuto 52 o 54, nell'altro caso. Senza contare che non avrebbe potuto essere, per ragioni d’età, valletto imperiale nel corso del decennio 1240-1250).

Se i critici avessero conosciuto la giovanissima età del poeta, avrebbero avuto certamente un importante elemento di giudizio in più. 

    La canzone lasciataci da Fulcone Ruffo è costituta da quattro stanze di 11 versi:                

                               (Versione libera)                                

D'amor distretto, vivo doloroso       

Com’om, che sta lontano                                         

e vedesi alungare

da cosa ch’ama, vedes’inoioso;            

Languiscie stando sano,

perché non pote usare

la cosa che li piacie;

perzò vado morendo!

Dunque non mi dispiacie

Tal mortte soferendo,

ma vivere mi pare.

 

Colui che se ‘ntanza li è conto il morire languir desiderando,

atendendo [a] speranza

[..] sua voglia [‘n]dolze           gioia compire;e nom sa merzé quando

li compia disianza,

ma vive comfortato

ch’à ssenno e volontate

di quella chui son dato

per fedele amistate,

e blasmando tardanza

 

Or son mortto, che vivo in carestia

di ciò che più disio,

e va pur acresciendo.

Di mia mortte e danno mi teria;

nom me ‘nde fora crio

ch’io l’avesse, savendo

plagiere achui unuri

e genziore e misura,

preg[i]o,beltà e valuri,

che fanno lor dimura

da ella nom partendo.

 

No avendo io voglia ma d’altrui

talento, che ‘mpotere mi tene

ch’io viva sì morente,

nom perde fine lo male ch’io sento;

vivo [sì] mi tiene,

ch’io moro più sovente.

Perzò meglio varia

morire in tuto in tutto,

ch’usar la vita mia

im pena ed in corutto

com[o] omo languente.  

 

D’amore avvinto vivo doloroso

come uomo che sta lontano

e ancor più vedendosi allontanare

da colei che ama si sente in angoscia;si sente morire pur essendo sano, perché non può godere

l’oggetto del suo amore;

per questo io vado morendo!

Ma non mi dispiace  

di soffrire tale morte,

anzi mi sembra di vivere.

 

Per chi ama è consueto ed amico il morire come il languire desiderando

a chi attende con speranza

di realizzare in dolce gioia

il suo sogno; non sa quando avrà il dono di appagare il suo desiderio,

ma vive egualmente confortato

poiché ama e desidera

colei a cui è legato

da fedele amore,

biasima soltanto l’attesa.

 

Mi par d’essere morto poiché mi manca

colei che più desidero,

ed il desiderio più si accresce.

Dovrei dolermi della mia morte,

ma non mi lamento

che io la patisca, sapendo

che sarà d’ornamento                 a colei in cui e gentilezza e sembiante, virtù e beltà e portamento  sono virtù che in Lei dimorano

e mai l’abbandonano.

 

Non di mia volontà, ma per volontà di altri che mi hanno in potere

io vivo questa agonia,

non ha fine il dolore ch’io provo

anzi mi tiene in vita

perché possa morire tante volte.

Perciò meglio sarebbe

morire una volta per tutte

Piuttosto che vivere

In pena ed in pianto

Come uomo che langue.

 

Appendice:

1) DIPLOMA CON IL QUALE RUGGERO II CONCEDE A GERVASIO RUFFO DUE FEUDI SITI NEL TENIMENTO DI SCIACCA.

RUGGERO RE IN CRISTO DIO PIO E POTENTE

Nel mese di aprile della presente indizione settima. Mentre siamo dimoranti serenamente e per la gloria di Dio esercitiamo la nostra Potenza nella città di Palermo ed a Dio piacendo abitiamo in questo stesso Palazzo nel quale viene innanzi alla Nostra Maestà [Potenza] il fedele  alleato [compagno] d’arme (fidelis armorum socius) lo stratiota (stratiotes) Signore (Dominus) Gervasio Ruffo che presenta domanda e supplica (postulans et supplicans) di avere [terre] non soltanto per il pascolo dei suoi animali ma anche per la coltivazione (pro aratio) perciò affinché abbia terre da coltivare tu ed i tuoi esperti (preceptores) ti diamo nel tenimento di Sciacca terre sufficienti alle tue necessità.

Regnando in pace (nostra vera serena potentia) possiamo accogliere le tue petizioni così come facciamo con quelle di chi a noi ricorre. Ho ordinato (mandavit) agli uffici competenti (officialibus secretorum) che diano a te ed ai tuoi eredi i feudi (tenimenta) che sono chiamati Minzellacar e Chambucae che sono comprese nel feudo di Sciacca (Saccae) con tutti i diritti nei confronti dei confinanti di quelle terre e ti sarà giovevole il presente Sigillo (iuvet tibi presentes Sigillum). E poiché ho dato ordini [come] incoronato da Dio e felicemente regnando in grazia di Dio ed avendo al presente il dominio (potestatem) sull’Isola di Sicilia, in futuro non si voglia o si osi contrastare la nostra per grazia di Dio autorità regale. Ma permangano in futuro in proprietà e dominio tuo e dei tuoi eredi libere da ogni violenza e molestia (liberae ab omni iniuria et molestia) tutte le sopradette [terre], ossia i feudi di Minzellacar e Chambucae. Cosicché si fa obbligo agli uffici preposti, per nostro reale mandato, che proteggano i feudi tuoi e dei tuoi eredi. E gli stessi, se sarà necessario debbono prestare l’aiuto delle nostre armi (auxiluium nostrae potentiae) in questa Isola di Sicilia unitamente con fanti ed armamenti (Ballistrarii  peditis) durante il mese di maggio e non oltre i confini lungo il vallone che è ai piedi di Chambuca fino alla città (?) e al detto grande fiume e per lo stesso vallone (ipsum vallonum) sale andando oltre un passo dopo l’altro (suprascando pedem pedem) i monti di Chambuca fino al luogo dove è la parte sul crinale per la quale si arriva alla valle detta dei lupi quindi (exinde)  va salendo salendo (sopram sopram [sic!]) fino al confine con il feudo di Adragna ed alle grandi pietre che sono propriamente sulla via pubblica che conduce da Adragna a Sciacca (per Adragnam a Saccam).  Da lì invece volgere lungo la via fino all’altro vallone che è in cima al monte a settentrione, e …. Per lo stesso vallone al ponte che è a metà del vallone sino alla sommità del monte. Poi discendendo lungo il vallone dover scorre l’acqua lungo la fonte fino alla congiunzione delle acque di questo vallone con l’altro che porta le acque di Adragno che è detto ACHECHELLO. Di poi va per terre in pianura verso settetrione e porta all’altra portella che è sopra un diverso vallone ed allo stesso vallone (?) dividendo la pianura procedendo verso settentrione e confinando con il feudo di Adragna passa ……. sino a quell’altro …… che è in comunione …… sopra quell’altro vallone dove scorre l’acqua che scende da ………… e ……. allo stesso vallone e per questo e per quell’altro scende verso occidente lungo il confine con ….. Misitindini (?) fino al luogo dove si congiungono l’acqua di questo vallone e l’acqua che scende per Minzellabio (?) quindi segue l'acqua del vallone che scende verso Minzellabio a settentrione e …… va ad altro luogo dove si congiunge con la stessa acqua di Minzellabio e con quella che proviene da Minzel[sumion]. Quindi segue il corso della stessa acqua ad occidente fino alla fonte che è di fronte a Minzelli[meon]. Scende poi dalla parte superiore …… e attraverso la pianura volge ad occidente fino al ponte che ………. Sopra il feudo seguendo l’argine fino al luogo [detto] del Dardo che è contro ed in faccia al fiume Cerab, quindi attraversa il fiume e va fino ai monti ed alle radici dei monti del Dardo lungo i confini del feudo di Minzelcarni e per il vallone che scende nel mezzo fino alla pianura di Minzelcarmi e va attraverso la pianura al vallone …….  ……….  ……. . Quindi a futura fede a Te Dominus Gervasio Ruffo ed ai tuoi discendenti con il presente Sigillo a sicurezza ed a conferma munita della nostra bolla in piombo (deinde ad futuram fidem …….. tibi Dominus Gervasio Ruffo et tuis heredibus presentes Sigillum ad sicuritatem et confirmationem ….. nostra plumbea bulla). Sigillata e firmata (sigillatam et signatam) nel mese e nell’indizione sopra indicate. Anno 6614 (1146)

+ Rogerius in Cristo Dio Pio  Potente Re e dei Cristiani aiutatore.

                       ( + Rogerius in Christo Deo Pius Potens Rex et Christianorum auxiliator )

Questo documento riveste grande importanza tanto per gli storici quanto per i genealogisti. Ruggero II, primo Re normanno, riceve come un suo pari Gervasio Ruffo, lo afferma definendolo suo “fedele alleato in guerra”. Basta per dare conferma di quanto asserito dai più antichi storici, ossia che la potenza militare dei Ruffo in Calabria era ben grande ancor prima dell’arrivo dei primi Normanni.

Attribuendogli, poi, la dignità militare di “STRATIOTA” dà concreto valore ad un’altra affermazione di quegli stessi storici: i Ruffo erano arrivati in Calabria dall’Oriente con i Bizantini ancor prima dell’anno mille.

A Costantinopoli erano a suo tempo arrivati da Roma con Costantino il Grande. Anche questo affermavano gli antichi storici, citati in bibliografia.

Riproduco la parte del documento che interessa:

2)              PRIVILEGIO IMPERIALE DI FEDERICO II

COL QUALE INVESTE DELLA TERRA DI SANTA CRISTINA E DEL CASALE DI PLACANICA  FULCONE RUFFO, NIPOTE DEL MAESTRO MARESCIALLO PIETRO DI CALABIA

“Noi Federico per grazia di Dio Imperatore dei romani sempre Augusto Re di Gerusalemme e di Sicilia etc. etc. etc. concediamo in perpetuum, tanto in considerazione della sua diligenza, fedeltà e devozione nel servizio quanto per i sui onorevoli costumi di vita, a te Fulcone Ruffo nipote di Pietro di Calabria Nostro fedelissimo e devotissimo Maestro Maresciallo e Nostro Gran Cancelliere etc. etc. la terra di Santa Cristina e del suo casale Pracanica, che appartennero al defunto Maestro Theodoro, filosofo,  concedendoti il libero dominio senza servitù di pesi e con tutte le pertinenze ed ogni suo razionale che a detta terra competono così come li godeva il Maestro Theodoro etc. etc. etc.

Confermiamo il presente privilegio comandando di munirlo del  sigillo della Nostra Maestà per mano del Notaio Nicola Delitundi. Dato nell’anno di incarnazione di Nostro Signore Millesimo ducentesimo quatrigesimo septimo mense novembris die vero nono, nona inditione

D.ni N.ri Federico Dei Grazia invict.mo Romanorum Imperatore semper Augusto Jerusalem et Siciliae Rege anno del Suo Impero trigesimo secundo, del Regno di Gerusalemme vigesimo octavo, del Regno di Sicilia quadragesimo primo feliciter Amen”

Bibliografia :

M. Amari : La guerra del vespro siciliano (Hoepli 1886)
Ammirato : Famiglie nobili napoletane
Archivio privato dei Ruffo di Calabria (Albero genealogicodella famiglia Ruffo a partire dall'anno di Roma 221)
Archivio privato del Principe Fabrizio Ruffo della Floresta Albero genealogico della famiglia Ruffo a partire dall'anno 879 dell'Era cristiana)
Bartolomeo de Neocastro : Historia Sicula (1250-1293)
Costanzo : Istoria del Regno di Napoli dal 1250 al 1489 .
N. De Jamsilla : Historia de rebus gestis Friderici II...etc (riportata da Muratori)
Della Marra : Famiglie nobili,Discorsi.(Napoli 1641)
G. Fiore : Calabria Illustrata vol. III (Effemem Chiaravalle Centrale)
P. Gaetano : Testamento dell'Imperatore Federico II
Hervè : La maison des Marquis de Ruffo-Bonneval extrait des Annales historiques
E. Horst : Federico II di Svevia (Rizzoli)
E. Kantorowicz : Federico II Imperatore (Garzanti)
J.W. Imhoff : Genealogiae viginti illustrium in Italia familiarum (1710)
Leone Ostiense : Cronaca Cassinese
P. Litta : Famiglie celebri italiane
F. Mugnos : Histoire genealogique de la maison Ruffo (Marseille 1880)
M. Pellicano Castagna : La storia dei feudi e dei titoli nobiliari in Calabria (Frama sud 1984)
M. Pellicano Castagna : Le ultime intestazioni feudali in Calabria Effemem Chiaravalle Centrale)
E. Pontieri: Un capitano della guerra del vespro: Pietro (II) Ruffo di Calabria. (Archivio storico siciliano)
E. Pontieri : La pretesa fellonia di Pietro Ruffo (1250-1255)(Archivio storico siciliano)
E. Pontieri : Ricerche sulla crisi della Monarchia siciliana nel secolo XIII (E.S.I. Napoli)
G. Proto di Maddaloni : Istoria della casa dei Ruffo (Napoli 1873)
G. Ruffo : Breve sunto sulla genealogia della famiglia Ruffo. Inedito. (Archivio privato di donna Lucilla Ruffo della Floresta)
V. Ruffo : Pietro Ruffo di Calabria conte di Catanzaro (Archivio storico della Calabria. Riedizione Barbaro editore Oppido M.)
V. Ruffo : Casa Ruffo (Inedito)(Archivio privato del Principe Fabrizio Ruffo della Floresta)
V. Ruffo : Nicolò Ruffo di Calabria marchese di Cotrone e conte di Catanzaro (Archivio storico della Calabria. Riedizione Barbaro editore Oppido M.)
Ritonio : Tessera omnium familiarum nobilium Italiae (Valenza 1484)
F. Scandone : Novissime ricerche sulla scuola poetica siciliana del secolo XIII (Napoli 1900)
Spanò Bolani : Storia di Reggio Calabria (Casa del libro. Reggio calabria)
N. Speciale : Historia sicula (dal 1282 al 1337) Storia del Mezzogiorno : Le provincie (Vol VII)
F. Torraca : Studi su la lirica italiana del duecento (Bologna 1902) Ughelli : Italia sacra

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